7 ottobre 2012:
Milan-Inter 0-1
Ci sono cose che
non devi fare, e sai che non le devi fare: però ogni tanto le fai lo
stesso. Le fai per eccesso di sicurezza, per pigrizia mentale, oppure
in quei momenti di pura, primitiva stupidità che capitano anche ai
ragionieri meglio addestrati.
Io, che pure sono
figlio di ragionieri, e ormai conosco i miei limiti, ho di questi
momenti con regolarità quasi contabile. Ai convegni, per esempio, in
genere mi preparo benino, perché so che se lascio troppo spazio
all’improvvisazione il dio della retorica accademica (che già nei
giorni buoni mi guarda accigliato, e mi tollera a stento in quanto
impostore titolato) prima o poi mi farà pagare il conto. A metà
intervento sentirò il ronzio di una mosca vicino a un orecchio, e
questo mi farà dimenticare completamente la frase che ho cominciato
senza sapere bene dove portarla, e che soprattutto non mi sono
scritto sull’inutile foglio pieno di freccine e cancellotti che ho
davanti (in compenso, in quel momento avrò perfettamente in testa
tutto il testo di ‘Panic’ degli Smiths, allitterazioni e toponimi
assurdi compresi). Oppure alzerò lo sguardo sull’uditorio, e lo
sguardo perplesso o sprezzante di un uditore ignoto mi porterà a
rapidissime e incontrovertibili conclusioni sull’assurdità della
traduttologia contemporanea e dell’intera esistenza umana nel corso
di pochi, lunghissimi istanti di silenzio. In questo caso non aiuta,
alla fine, la mia convinzione che l’intera esistenza umana abbia in
effetti pochissimo senso, e che anche la traduttologia contemporanea
sia un po’ sopravvalutata sul piano scientifico.
A volte mi
deprime, questa mia incapacità di imparare dagli errori. A volte
penso sia una forma di cupio dissolvi, un modo per dimostrare
che sono davvero quell’incapace imbucato nella vita di qualcun
altro che i miei sogni mettono in scena una notte sì e una no. Poi
penso all’Inter, e mi rassereno un po’. Alla fine ha la sua
utilità personale, tifare per l’Inter. L’ho detto all’inizio
di questa serie di articoli, ho intenzione di dimostrarlo, e non
permetterò certo alla logica di distogliermi dai miei obiettivi.
L’inter mi
consola, mi fa sentire meno solo in questa mia debolezza. Perché ha
fatto spesso la stessa cosa, e del resto, se non l’avesse fatta,
avrebbe vinto almeno cinque-sei campionati e due-tre coppe in più.
In sostanza, se l’Inter non si fosse comportata così spesso come
me a un convegno, sarebbe stata la Juve. E quindi forse non avrei
tifato Inter, ma Juve. E adesso, alla fine di questo capoverso,
saremmo da capo, solo a nomi invertiti. E per il resto non sarebbe
cambiato un accidenti, perché io non sono mai stato né a San Siro
né al Comunale di Torino né allo ‘Juventus Stadium’ (ma per
favore...), e per me tutto questo è solo un grande ammasso
accumulato negli anni di nomi, facce viste nelle figurine Panini e
corpi visti in televisione.
In sintesi:
l’Inter è una squadra che prospera nella bruttezza. Quando fa
schifo con ardore, con assoluta convinzione nei propri nefandi mezzi,
può vincere qualsiasi cosa contro chiunque. Quando fa schifo con
poca fiducia in se stessa, con un senso di inferiorità nei confronti
della forte Juve o del bel Milan, può al massimo arrivare terza o
quarta. Quando cerca di essere elegante, di comprare giocatori
raffinati e di applicare schemi complicati, può rischiare la
retrocessione. Eppure, ogni tanto i presidenti dell’Inter
dimenticano questa fondamentale verità e perseguono il bello, come
se una partita di calcio fosse un’anfora greca. C’è qualcosa di
filosoficamente sbagliato in questa idea estetica del calcio, ma è
complicato spiegarlo, e ci tornerò qualche altra volta. Per adesso,
mi basta enunciare un postulato minore e facilmente dimostrabile:
all’Inter, il Bello e l’Utile non si sovrappongono mai. Se avete
avuto l’impressione che lo facessero, cari amici correligionari, è
perché a volte (il Trapattoni del 1989, il Mourinho del 2010)
l’Utile è stato catturato e portato a casa in modo così
efficiente che il procedimento stesso vi è sembrato bello. In parole
povere, se l’Inter a volte vi sembra piacevole a vedersi è perché
siete interisti. Ma quando vinciamo siamo come il Barcellona di
Guardiola, anche se per motivi opposti: ci divertiamo solo noi.
Partiamo dalle
prove negative: nel 1991, siccome al Milan c’è Sacchi, il
presidente Pellegrini decide di prendere Corrado Orrico, il ‘Maestro
di Volpara.’ In luglio, Orrico passa una settimana con un ingegnere
a costruire un campo-gabbia. La sua aspirazione è quella di creare
un calcio totale che coniughi una forte fase difensiva con
un’organizzazione d’attacco perfetta. L’aspirazione di Walter
Zenga e degli altri giocatori importanti dell’Inter è invece
quella di abbattere la gabbia di Orrico a testate. Dopo l’andata
del primo turno di coppa Uefa, contro i portoghesi del Boavista,
Orrico dichiara ‘è più facile che crolli il Duomo piuttosto che
l’Inter venga eliminata.’ L’Inter viene eliminata, e dopo
qualche mese viene eliminato anche Orrico – anzi, si elimina da
solo. La gabbia rimane anni e anni, a ricordare ai presidenti
successivi che dalla ricerca della bellezza non può nascere niente
di buono.
Nel 2010, il
presidente successivo guarda la gabbia, pur sforzandosi non riesce a
ricordare la storia che gli avevano raccontato su quel coso lì, e
ingaggia Benitez, uno bravo, che sa far giocare la squadra e ha vinto
una coppa dei campioni. Appena arrivato, Benitez guarda anche lui la
gabbia, con una specie di inspiegabile concupiscenza. Poi guarda
l’accozzaglia di adepti dell’orrore calcistico che ha davanti e
dice, più o meno: ‘Con Mourinho avete imparato a vincere, con me
adesso imparate a giocare.’ Nessuno, credo, gli fa presente che
dire una cosa del genere all’Inter è come presentarsi alla Pollo
del Campo e dire: ‘Fino ad ora vi siete occupati di produrre più
uova sempre più grandi, ma adesso, con me, vi dedicherete allo
studio della forma ovale perfetta.’ L’Inter gioca bene per due o
tre partite, poi comincia a disunirsi e vince il mondiale per club
solo perché le recapitano in finale il Mazembe, il cui nome intero è
Tuit Puissant Mazembe e che prima si chiamava Tuit Puissant Englebert
(!). Benitez se ne va, tutto offeso, neanche fosse il Tuit Puissant
Englebert. A quel punto arriva Leonardo, che sarebbe un profeta del
bello ma ha la stessa idea tattica del calcio che ho io
dell’equitazione: ci sono dei cavalli che corrono e saltano, e c’è
della gente con un buffo copricapo che se ne sta aggrappata ai
cavalli.
E poi si potrebbe
citare Lippi, che vorrebbe fare dell’Inter una squadra forte e
dominante sul modello della sua Juve. E Gasperini, che vorrebbe fare
il calcio totale e invece riduce tutto il gioco della squadra allo
schema ‘palla a Lucio che ne scarta due, il terzo gliela soffia e
gli altri fanno gol’ (qui il copyright è del correligionario
Davide Barzi).
E le prove
positive? Praticamente ogni scudetto, ogni coppa vinta dall’Inter è
un elogio della bruttezza. Limitandomi alle squadre seguite in prima
persona, posso citare quella di Bersellini, che fuori casa faceva le
barricate anche con l’Universitatea Craiova; quella di Trapattoni,
che costruiva azioni micidiali fatte di due passaggi, con Serena che
faceva a capocciate e Matthäus e Berti che si scagliavano in area
come bufali impazziti partendo da centrocampo; quella di Simoni, che
avrebbe dovuto vincere lo scudetto del 1998 diventando la squadra
titolata più orrenda mai vista su un campo di calcio (fatta
eccezione per un ballerino velocista mai visto né prima né dopo).
E tutta questa
sequela di orrori, di mediocrità trasformata in grandezza per pura
ostinazione, è culminata nella tripletta vittoriosa del 2010,
ottenuta con un’Inter che aveva rinunciato ai colpi di tacco di
Ibrahimovic per mettere due centravanti a fare i terzini. Che quando
c’era bisogno difendeva dentro all’area anche in sei o sette,
costruendo un gioco pieno di tocchi sporchi, di deviazioni
all’ultimo, di tuffi di testa e scivolate in difesa e di lanci
lunghi in attacco. Lo stesso gioco con cui ieri Stramaccioni, che in
questo senso è davvero il nuovo Mourinho, ci ha fatto vincere un
derby a cui mancava, per completarne la tristezza, solo un campo di
gioco marrone e spelacchiato tipo quello dell’Avellino anni
Ottanta.
(A proposito,
povero Josè – costretto a scendere a patti con i maledetti esteti
del Madrid. Se non ci tenesse così tanto a essere ricordato come Il
Migliore, li avrebbe già mandati a quel paese da un pezzo.)
E tuttavia, dopo
questa apoteosi del calcio parrocchiale, il presidente Moratti c’è
ricascato. Benitez, Leonardo e Gasperini, per poi arrivare finalmente
a Stramaccioni passando per l’onesta ma grigia bruttezza di
Ranieri.
È incredibile,
come io e la mia squadra non impariamo dagli errori.
Una nota per i
lettori: questa rubrica è stata assente per tutta l’estate, e
anche adesso le puntate non saranno frequenti per via del fatto che –
oltre al lavoro che mi dà da mangiare – in questo periodo sono
piuttosto occupato a presentare un disco, Silent Revolution.
Qualche giorno fa, in un concerto di presentazione, ho pensato di
fare una sola cover: ‘Panic’ degli Smiths. L’ho deciso
all’ultimo momento, improvvisando un po’, e ho dato un’occhiata
rapida al testo. L’ho anche provato, ma dopo un po’ ho lasciato
perdere: quante volte l’avrò sentita, ‘Panic’? Dai, in pratica
la so a memoria. In concerto, a metà canzone ho alzato lo sguardo
sul pubblico: quali erano, poi, i toponimi assurdi e allitteranti che
tirava fuori Morrissey? Niente. Il vuoto. E non sono nemmeno riuscito
a biascicare qualcosa in inglese maccheronico, perché guardando in
faccia quelli che c’erano lì in prima fila ho capito che se ne
sarebbero accorti.
In compenso, mi è
venuta in mente la fine di una frase che avevo lasciato a metà a un
convegno di qualche anno prima.