lunedì 8 ottobre 2012

9. Il brutto, il brutto e il brutto

7 ottobre 2012: Milan-Inter 0-1

Ci sono cose che non devi fare, e sai che non le devi fare: però ogni tanto le fai lo stesso. Le fai per eccesso di sicurezza, per pigrizia mentale, oppure in quei momenti di pura, primitiva stupidità che capitano anche ai ragionieri meglio addestrati.

Io, che pure sono figlio di ragionieri, e ormai conosco i miei limiti, ho di questi momenti con regolarità quasi contabile. Ai convegni, per esempio, in genere mi preparo benino, perché so che se lascio troppo spazio all’improvvisazione il dio della retorica accademica (che già nei giorni buoni mi guarda accigliato, e mi tollera a stento in quanto impostore titolato) prima o poi mi farà pagare il conto. A metà intervento sentirò il ronzio di una mosca vicino a un orecchio, e questo mi farà dimenticare completamente la frase che ho cominciato senza sapere bene dove portarla, e che soprattutto non mi sono scritto sull’inutile foglio pieno di freccine e cancellotti che ho davanti (in compenso, in quel momento avrò perfettamente in testa tutto il testo di ‘Panic’ degli Smiths, allitterazioni e toponimi assurdi compresi). Oppure alzerò lo sguardo sull’uditorio, e lo sguardo perplesso o sprezzante di un uditore ignoto mi porterà a rapidissime e incontrovertibili conclusioni sull’assurdità della traduttologia contemporanea e dell’intera esistenza umana nel corso di pochi, lunghissimi istanti di silenzio. In questo caso non aiuta, alla fine, la mia convinzione che l’intera esistenza umana abbia in effetti pochissimo senso, e che anche la traduttologia contemporanea sia un po’ sopravvalutata sul piano scientifico.

A volte mi deprime, questa mia incapacità di imparare dagli errori. A volte penso sia una forma di cupio dissolvi, un modo per dimostrare che sono davvero quell’incapace imbucato nella vita di qualcun altro che i miei sogni mettono in scena una notte sì e una no. Poi penso all’Inter, e mi rassereno un po’. Alla fine ha la sua utilità personale, tifare per l’Inter. L’ho detto all’inizio di questa serie di articoli, ho intenzione di dimostrarlo, e non permetterò certo alla logica di distogliermi dai miei obiettivi.

L’inter mi consola, mi fa sentire meno solo in questa mia debolezza. Perché ha fatto spesso la stessa cosa, e del resto, se non l’avesse fatta, avrebbe vinto almeno cinque-sei campionati e due-tre coppe in più. In sostanza, se l’Inter non si fosse comportata così spesso come me a un convegno, sarebbe stata la Juve. E quindi forse non avrei tifato Inter, ma Juve. E adesso, alla fine di questo capoverso, saremmo da capo, solo a nomi invertiti. E per il resto non sarebbe cambiato un accidenti, perché io non sono mai stato né a San Siro né al Comunale di Torino né allo ‘Juventus Stadium’ (ma per favore...), e per me tutto questo è solo un grande ammasso accumulato negli anni di nomi, facce viste nelle figurine Panini e corpi visti in televisione.

In sintesi: l’Inter è una squadra che prospera nella bruttezza. Quando fa schifo con ardore, con assoluta convinzione nei propri nefandi mezzi, può vincere qualsiasi cosa contro chiunque. Quando fa schifo con poca fiducia in se stessa, con un senso di inferiorità nei confronti della forte Juve o del bel Milan, può al massimo arrivare terza o quarta. Quando cerca di essere elegante, di comprare giocatori raffinati e di applicare schemi complicati, può rischiare la retrocessione. Eppure, ogni tanto i presidenti dell’Inter dimenticano questa fondamentale verità e perseguono il bello, come se una partita di calcio fosse un’anfora greca. C’è qualcosa di filosoficamente sbagliato in questa idea estetica del calcio, ma è complicato spiegarlo, e ci tornerò qualche altra volta. Per adesso, mi basta enunciare un postulato minore e facilmente dimostrabile: all’Inter, il Bello e l’Utile non si sovrappongono mai. Se avete avuto l’impressione che lo facessero, cari amici correligionari, è perché a volte (il Trapattoni del 1989, il Mourinho del 2010) l’Utile è stato catturato e portato a casa in modo così efficiente che il procedimento stesso vi è sembrato bello. In parole povere, se l’Inter a volte vi sembra piacevole a vedersi è perché siete interisti. Ma quando vinciamo siamo come il Barcellona di Guardiola, anche se per motivi opposti: ci divertiamo solo noi.

Partiamo dalle prove negative: nel 1991, siccome al Milan c’è Sacchi, il presidente Pellegrini decide di prendere Corrado Orrico, il ‘Maestro di Volpara.’ In luglio, Orrico passa una settimana con un ingegnere a costruire un campo-gabbia. La sua aspirazione è quella di creare un calcio totale che coniughi una forte fase difensiva con un’organizzazione d’attacco perfetta. L’aspirazione di Walter Zenga e degli altri giocatori importanti dell’Inter è invece quella di abbattere la gabbia di Orrico a testate. Dopo l’andata del primo turno di coppa Uefa, contro i portoghesi del Boavista, Orrico dichiara ‘è più facile che crolli il Duomo piuttosto che l’Inter venga eliminata.’ L’Inter viene eliminata, e dopo qualche mese viene eliminato anche Orrico – anzi, si elimina da solo. La gabbia rimane anni e anni, a ricordare ai presidenti successivi che dalla ricerca della bellezza non può nascere niente di buono.

Nel 2010, il presidente successivo guarda la gabbia, pur sforzandosi non riesce a ricordare la storia che gli avevano raccontato su quel coso lì, e ingaggia Benitez, uno bravo, che sa far giocare la squadra e ha vinto una coppa dei campioni. Appena arrivato, Benitez guarda anche lui la gabbia, con una specie di inspiegabile concupiscenza. Poi guarda l’accozzaglia di adepti dell’orrore calcistico che ha davanti e dice, più o meno: ‘Con Mourinho avete imparato a vincere, con me adesso imparate a giocare.’ Nessuno, credo, gli fa presente che dire una cosa del genere all’Inter è come presentarsi alla Pollo del Campo e dire: ‘Fino ad ora vi siete occupati di produrre più uova sempre più grandi, ma adesso, con me, vi dedicherete allo studio della forma ovale perfetta.’ L’Inter gioca bene per due o tre partite, poi comincia a disunirsi e vince il mondiale per club solo perché le recapitano in finale il Mazembe, il cui nome intero è Tuit Puissant Mazembe e che prima si chiamava Tuit Puissant Englebert (!). Benitez se ne va, tutto offeso, neanche fosse il Tuit Puissant Englebert. A quel punto arriva Leonardo, che sarebbe un profeta del bello ma ha la stessa idea tattica del calcio che ho io dell’equitazione: ci sono dei cavalli che corrono e saltano, e c’è della gente con un buffo copricapo che se ne sta aggrappata ai cavalli.

E poi si potrebbe citare Lippi, che vorrebbe fare dell’Inter una squadra forte e dominante sul modello della sua Juve. E Gasperini, che vorrebbe fare il calcio totale e invece riduce tutto il gioco della squadra allo schema ‘palla a Lucio che ne scarta due, il terzo gliela soffia e gli altri fanno gol’ (qui il copyright è del correligionario Davide Barzi).

E le prove positive? Praticamente ogni scudetto, ogni coppa vinta dall’Inter è un elogio della bruttezza. Limitandomi alle squadre seguite in prima persona, posso citare quella di Bersellini, che fuori casa faceva le barricate anche con l’Universitatea Craiova; quella di Trapattoni, che costruiva azioni micidiali fatte di due passaggi, con Serena che faceva a capocciate e Matthäus e Berti che si scagliavano in area come bufali impazziti partendo da centrocampo; quella di Simoni, che avrebbe dovuto vincere lo scudetto del 1998 diventando la squadra titolata più orrenda mai vista su un campo di calcio (fatta eccezione per un ballerino velocista mai visto né prima né dopo).

E tutta questa sequela di orrori, di mediocrità trasformata in grandezza per pura ostinazione, è culminata nella tripletta vittoriosa del 2010, ottenuta con un’Inter che aveva rinunciato ai colpi di tacco di Ibrahimovic per mettere due centravanti a fare i terzini. Che quando c’era bisogno difendeva dentro all’area anche in sei o sette, costruendo un gioco pieno di tocchi sporchi, di deviazioni all’ultimo, di tuffi di testa e scivolate in difesa e di lanci lunghi in attacco. Lo stesso gioco con cui ieri Stramaccioni, che in questo senso è davvero il nuovo Mourinho, ci ha fatto vincere un derby a cui mancava, per completarne la tristezza, solo un campo di gioco marrone e spelacchiato tipo quello dell’Avellino anni Ottanta.

(A proposito, povero Josè – costretto a scendere a patti con i maledetti esteti del Madrid. Se non ci tenesse così tanto a essere ricordato come Il Migliore, li avrebbe già mandati a quel paese da un pezzo.)

E tuttavia, dopo questa apoteosi del calcio parrocchiale, il presidente Moratti c’è ricascato. Benitez, Leonardo e Gasperini, per poi arrivare finalmente a Stramaccioni passando per l’onesta ma grigia bruttezza di Ranieri.

È incredibile, come io e la mia squadra non impariamo dagli errori.

Una nota per i lettori: questa rubrica è stata assente per tutta l’estate, e anche adesso le puntate non saranno frequenti per via del fatto che – oltre al lavoro che mi dà da mangiare – in questo periodo sono piuttosto occupato a presentare un disco, Silent Revolution. Qualche giorno fa, in un concerto di presentazione, ho pensato di fare una sola cover: ‘Panic’ degli Smiths. L’ho deciso all’ultimo momento, improvvisando un po’, e ho dato un’occhiata rapida al testo. L’ho anche provato, ma dopo un po’ ho lasciato perdere: quante volte l’avrò sentita, ‘Panic’? Dai, in pratica la so a memoria. In concerto, a metà canzone ho alzato lo sguardo sul pubblico: quali erano, poi, i toponimi assurdi e allitteranti che tirava fuori Morrissey? Niente. Il vuoto. E non sono nemmeno riuscito a biascicare qualcosa in inglese maccheronico, perché guardando in faccia quelli che c’erano lì in prima fila ho capito che se ne sarebbero accorti.

In compenso, mi è venuta in mente la fine di una frase che avevo lasciato a metà a un convegno di qualche anno prima.