13 febbraio 1949: Torino-Juventus 3-1
Secondo me, ogni vero tifoso dell’Inter dovrebbe essere un po’
torinista. Io, se non fosse che essere torinista è un’impresa
ancora più disperata che essere interista, avrei cambiato squadra di
sicuro, da qualche parte fra Ciccio Moriero e Gresko, o almeno ne
avrei tenute due. Anzi, a ben guardare, il motivo per cui sono
rimasto interista, nonostante il mantello da bei tenebrosi e principi
della sfiga rovinosa di cui si possono ammantare i tifosi del Torino,
nonostante la bellezza delle maglie granata e della stessa parola
“granata”, è solo che non si può veramente cambiare squadra. Il
tenere per una squadra invece che per un’altra è un marchio
casuale quanto indelebile: come uno che ti dà una testata per
strada, senza motivo, e ti cambia i connotati per sempre. Ed è
veramente un peccato, perché mi sarebbe piaciuto essere torinista:
sarebbe stato un modo ancora più perfetto per dire al mondo che
anche se tutto sembra darmi torto, in realtà ho ragione, non fosse
per il fatto che poi alla fine ho torto.
Negli anni, siccome non potevo tenere al Torino, mi sono costruito
la mia gerarchia del tifo, che è una cosa tipo le leggi della
robotica di Asimov: 1) tifa per la squadra A; 2) tifa per la squadra
B, a meno che il tuo tifo non entri in conflitto con (1); 3) tifa per
la squadra C, a meno che il tuo tifo non entri in conflitto con (1) e
(2); eccetera. E quindi tifo Torino, tranne quando gioca con l’Inter;
Bologna, tranne quando gioca con Torino e Inter. Cesena, tranne
quando gioca con Bologna, Torino e Inter. E poi, visto che il mio
cugino grande – che adesso fa il giornalista sportivo! – mi disse
che teneva per il West Ham, facendomi capire che si poteva anche
tifare oltreconfine: tifo Arsenal, Tottenham e tutte le altre squadre
di Londra in Inghilterra; Atletico Madrid, Valencia e Athletic Bilbao
in Spagna; Saint Etienne in Francia; tutti tranne il Bayern in
Germania; eccetera, eccetera, eccetera. Con scelte a volte
calcistiche ma più spesso ideologiche, e ancora più spesso
completamente casuali (del Saint Etienne mi piaceva il nome, credo).
Ma a parte la gerarchia e l’internazionalizzazione del tifo, che
farebbe felice l’ex ministro dell’istruzione Gelmini – che Dio
la strabenedica – il Torino è una questione diversa. Intanto è
l’altra squadra di Torino, ma per motivi storici si può
tranquillamente sostenere che è la squadra di Torino, e che quegli
altri sono l’altra squadra di Torino. E poi il Torino è la squadra
di Valentino Mazzola – e dopo Superga, e con Sandrino Mazzola, e
con le foto di Valentino che lega le scarpe da calcio a Sandrino, ci
si può illudere che fra granata e nerazzurro ci sia una specie di
legame ideale. Non è vero, e l’Inter degli anni Sessanta, come
questa, era di proprietà di un petroliere, ma fa niente: il tifo non
è razionale, semmai lo si può razionalizzare a posteriori. E quindi
ce li prendiamo (anche) noi, i poeti e i prosatori che hanno scritto
del grande Torino, e ci prendiamo un pezzetto di Valentino e di
Puliciclone. E quindi noi siamo l’arte, la sconfitta gloriosa e la
bella morte, e loro sono la civiltà delle macchine e gli orologi di
marca. Loro sono i romani e noi i greci sconfitti, che alla fine
hanno conquistato i vincitori e si sono pure portati a casa un
Europeo.
Direte che non c’entra, ma ieri sera, all’ora dell’aperitivo,
sono andato a sentire Giacomo Toni che suonava da solo. Giacomo Toni
è il più grande cantautore italiano – lo dico sempre a tutti, e
tutti credono che scherzi – e se oggi fossero gli anni Sessanta lui
avrebbe già venduto milioni di dischi. Badate bene, dico cantautore
nel senso che è uno che le canzoni se le scrive e se le canta, e non
perché sia come gli altri cantautori italiani che tutti conoscono:
Giacomo è un gran pianista, un grande musicista, e scrive canzoni,
non testi messi in musica. Andatelo a cercare, compratevi i suoi
album, ma intanto beccatevi un paio di versi a caso: ‘Sono un po’
in apprensione / Il nostro amore richiede la tua partecipazione.’
La citazione non gli fa per niente giustizia, ma è per dire che non
c’è canzone di Giacomo Toni che non riservi qualche sorpresa.
Questa, per esempio, è una canzone che ha scritto praticamente da
ragazzino. E lui la canta guardando il pubblico con espressione
severa.
Il posto in cui suonava Giacomo, ieri sera, era un bar alla
periferia di Forlì – uno di quei bar che una volta erano solo bar,
con la loro bella compagnia fissa da bar, e che invece adesso sono
dei locali in cui si va a prendere l’aperitivo, e ogni tanto, cosa
vuoi, bisogna chiamare qualcuno a suonare. Arredamenti molto belli,
bancone-bunker quadrato molto elegante, champagne. Quando siamo
arrivati, io e la Paola, era troppo presto come al solito, non c’era
quasi nessuno. Giacomo era seduto a un tavolino con i suoi testi
davanti agli occhi. Ci siamo seduti vicino a lui, con la solita paura
di disturbare – Giacomo è molto più giovane di noi, ma in fondo
al cuore è un romagnolo di centosessant’anni e hai sempre paura di
disturbare – e abbiamo fatto due chiacchiere.
Dopo un po’ la gente ha cominciato ad arrivare, e noi abbiamo
cominciato a preoccuparci. Di avventori ne arrivavano moltissimi, ma
di pubblico, a giudicare dalle apparenze, poco. Passavano in rivista
davanti al nostro tavolo – come se noi fossimo alti ufficiali, e
loro reclute dell’aperitivo – giovani uomini con le sopracciglia
ritoccate e giovani donne ritoccate da cima a fondo per l’occasione
del sabato. Le giovani donne avevano l’aria di sopravvalutarsi
parecchio, e i giovani uomini avevano quell’espressione allo stesso
tempo attonita e sprezzante che le sopracciglia ritoccate non mancano
mai di conferire ai loro portatori. Il fatto di sopravvalutarsi lo
capisco, perché capita anche a me, con curva ascendente a partire
dallo zero ascisse e ordinate che è l’ultima volta che mi sono
guardato allo specchio. Anche l’espressione attonita la capisco,
perché sono spesso attonito anch’io. Solo che nel corso della
serata è diventato lampante che quei giovani uomini non erano
veramente attoniti, ancorché lo sembrassero. Mentre noi forse non
sembravamo attoniti, ma lo eravamo.
A locale ormai pieno, uno dei gestori ha cominciato ad affettare del
prosciutto crudo e a tagliare del formaggio con un lungo coltello. È
arrivato un buffet pieno di ottimi assaggini, alcuni dei quali
tartufati. Nel locale, a questo punto, quasi tutte le cose inanimate
erano di buon gusto.
Dopo qualche esitazione, Giacomo Toni si è messo al piano. Ha
spostato i pomelli del mixer, si è aggiustato il microfono, si è
versato il primo di diversi bicchieri di vino rosso. Si è guardato
intorno. Ha spostato i pomelli del mixer, ha bevuto un lungo sorso di
vino, si è aggiustato il microfono. Ha toccato un paio di tasti con
la mano sinistra, ha detto ‘one, two, three, four’ nel microfono,
lo ha spostato e ha aggiustato i pomelli del mixer. Ha dato un colpo
di tosse esplorativo nel microfono. Ha sistemato le gambe sui pedali
e le mani sui tasti, e ha cominciato a suonare. Ha eseguito una lunga
introduzione strumentale, e poi si è messo a cantare. Giacomo ha una
voce che potrebbe tirare giù il locale senza problemi, ma all’inizio
si è messo a cantare così, quasi fra sé e sé, come per non
rovinare il brusio.
Tutto intorno infuriava l’aperitivo. Il disinteresse era quasi
completo. Il disinteresse non era nemmeno ostile, ma sorridente,
paternalistico, stivalato e con le sopracciglia ritoccate. Giovani
uomini e giovani donne avvicinavano le bocche alle orecchie per dirsi
cose fondamentali, decisive, che non si potevano certo rimandare di
un giorno o di un’ora. Volevano sapere come stavano, per Dio, che
era da sabato scorso che non si vedevano, e a che ora erano arrivati
e arrivate, e se era il primo, il secondo, o il terzo bicchiere, e se
avevano visto Gibo. Ogni tanto qualche giovane uomo col calice tenuto
alto davanti a sé, come a indicare che lui era uno che non si faceva
certo dominare da un calice qualsiasi, si avvicinava al piano e
annuiva. Sì – musica – conosco, sembrava dire. Pianoforte –
già visto, buono, mi piace. Ogni tanto qualche giovane donna
autosopravvalutata si accarezzava i capelli con le dita libere dal
calice e guardava il pianista, con l’aria di chiedersi se la musica
le donasse all’acconciatura. Ogni volta che Giacomo alzava la voce
o aumentava la pressione sui tasti, il brusio tutto intorno diventava
un rombo, ma dopo pochi istanti si placava, soddisfatto di avere
ristabilito il suo primato sulla musica e sul silenzio. Alla fine di
ogni canzone, noi due unici spettatori – più tardi, dopo una
pausa, ne sarebbero arrivati altri due – rimanevamo sbalorditi:
tutto intorno si levava un applauso proporzionato al ritmo del pezzo
appena suonato, ma a parte poche eccezioni, non si vedevano mani che
applaudivano.
In tutto questo, Giacomo Toni andava avanti con le sue canzoni. In
questo brusio spezzato dai tuoni, Giacomo Toni suonava e cantava le
sue canzoni serie e le sue canzoni comiche, le sue canzoni jazzate e
le sue canzoni classicheggianti, le sue ballate e le sue canzoni da
ballo. In questo tintinnare universale di spritz da cinque euro,
Giacomo Toni eseguiva senza fare una singola piega un concerto per
cui trenta euro sarebbero stati ben spesi. Al quarto bicchiere di
vino, Giacomo Toni cominciava a declamare a memoria versi su versi
del canto ventiseiesimo dell’Inferno, e uno dei giovani uomini gli
annuiva dirimpetto come a dire io e te ci capiamo, io e te conosciamo
le stesse cose, siamo fatti della stessa pasta, io e te. Quello è un
microfono, vero? Conosco – ne ho visti, nella vita, di microfoni...
Alla fine del concerto, quando Giacomo ha ringraziato e si è alzato
in piedi, si è trovato davanti due giovani donne tanto convinte di
sé quanto traballanti sui tacchi del sabato. Non erano alte, quelle
giovani donne, e i tacchi in qualche modo lo sottolineavano. Gli
hanno chiesto una cosa nell’orecchio, e si è capito che volevano
una canzone di Paolo Conte. Niente di male, per carità: una canzone
di Paolo Conte. Lì c’era Giacomo Toni, forse loro non avevano
sentito più di tre parole di tutto il concerto, perché dovevano
chiedere come stavano e da quanto erano arrivati numerosi giovani
uomini, e se avevano visto Gibo, e poi alla fine del giro
richiederglielo perché nel frattempo era passato del tempo e quindi
la risposta era cambiata, e anche Gibo magari era cambiato –
insomma, avevano davanti Giacomo Toni e quindi giustamente gli
chiedevano una canzone di Paolo Conte. Fossero andate a vedere un
concerto di Paolo Conte, sicuramente gli avrebbero chiesto una
canzone di Giacomo Toni. Le giovani donne fanno così. Giacomo si è
schermito, ha detto che non si ricordava le parole, e allora un
giovane uomo si è fatto avanti e ha detto, non c’è problema, me
le ricordo io. Te mi accompagni e io canto. Perché i giovani uomini
fanno così. Se fosse stato a un concerto di Paolo Conte, sicuramente
gli avrebbe chiesto di accompagnarlo che lui cantava, se le ricordava
lui le parole di ‘Un bel sabato’ di Giacomo Toni, nessun
problema.
E allora Giacomo si è messo al piano, e lo ha accompagnato, e il
giovane uomo cantava. Imitava un po’ la voce di Paolo Conte, o
meglio, si capiva che voleva far capire che imitava un po’ la voce
di Paolo Conte. E come il giovane uomo ha attaccato a cantare, tutti
i suoi amici, ed erano parecchi, si sono messi a fare fotografie e
filmati con i loro telefoni cellulari tenuti bene in alto – una
bellissima scena, anche perché i telefoni erano tutti di ultima
generazione – e si è creato un silenzio religioso che non c’era
mai stato per tutta la serata. E Giacomo Toni ha continuato a
suonare, e il giovane uomo che cantava si è dimenticato un po’ di
parole. Per forza, il testo era lungo, complicato, chi non si
dimentica un po’ di parole? Giacomo Toni una mezzora prima aveva
saltellato come un capretto impazzito fra le sillabe delle sue
canzoni comiche più geniali, ma quelle se le è scritte lui, bella
forza, no?
Ed è stato in questo momento, quando Giacomo suggeriva le parole
che aveva detto di non ricordare al giovane uomo che aveva detto di
saperle a memoria, che li ho visti, sotto l’influsso dell’alcol e
del mio normale stato di allucinazione nerazzurrogranata. Un uomo di
altezza media, dal fisico possente, un po’ chino per tenere le mani
sulle spalle di un bambino magro magro, dallo sguardo sveglio. Il
bambino non voleva avvicinarsi – forse si vergognava un po’
perché sia lui sia il babbo erano vestiti da calcio, e avevano ai
piedi scarpe coi tacchetti invernali, mentre tutti gli altri lì
intorno erano vestiti da sera. Ma poi il babbo lo ha preso per mano
e lui ha preso coraggio, e si sono avvicinati al piano. E quando si
sono trovati davanti al piano il babbo si è accovacciato, ha girato
la faccia del bambino verso gli amici del giovane uomo e gli ha
detto:
‘Li vedi, Sandrino? Sono quelli della Juve. Qua dentro sono tutti
della Juve. Te non fare mai come loro, mi raccomando. E invece vedi
quello che suona? Lui è dell’Inter, e in più è un musicista,
quindi è come se fosse anche un po’ del Torino. E infatti ha
scritto una canzone dove racconta che va in piazza a festeggiare lo
scudetto ma è triste perché la ragazza lo ha lasciato.’
Ed è così che mi sono ricordato che proprio quella sera era la sera
del derby, che ormai era cominciato da un’oretta buona. E mi sono
detto, tanto va a finire come al solito. Oggi i giornali erano pieni
delle solite balle sul cuore Toro, e poi va a finire come al solito.
Quando sono arrivato a casa ho controllato, e infatti era andata a
finire come al solito.