lunedì 3 dicembre 2012

12. Il cantautore neroazzurrogranata

13 febbraio 1949: Torino-Juventus 3-1

Secondo me, ogni vero tifoso dell’Inter dovrebbe essere un po’ torinista. Io, se non fosse che essere torinista è un’impresa ancora più disperata che essere interista, avrei cambiato squadra di sicuro, da qualche parte fra Ciccio Moriero e Gresko, o almeno ne avrei tenute due. Anzi, a ben guardare, il motivo per cui sono rimasto interista, nonostante il mantello da bei tenebrosi e principi della sfiga rovinosa di cui si possono ammantare i tifosi del Torino, nonostante la bellezza delle maglie granata e della stessa parola “granata”, è solo che non si può veramente cambiare squadra. Il tenere per una squadra invece che per un’altra è un marchio casuale quanto indelebile: come uno che ti dà una testata per strada, senza motivo, e ti cambia i connotati per sempre. Ed è veramente un peccato, perché mi sarebbe piaciuto essere torinista: sarebbe stato un modo ancora più perfetto per dire al mondo che anche se tutto sembra darmi torto, in realtà ho ragione, non fosse per il fatto che poi alla fine ho torto.

Negli anni, siccome non potevo tenere al Torino, mi sono costruito la mia gerarchia del tifo, che è una cosa tipo le leggi della robotica di Asimov: 1) tifa per la squadra A; 2) tifa per la squadra B, a meno che il tuo tifo non entri in conflitto con (1); 3) tifa per la squadra C, a meno che il tuo tifo non entri in conflitto con (1) e (2); eccetera. E quindi tifo Torino, tranne quando gioca con l’Inter; Bologna, tranne quando gioca con Torino e Inter. Cesena, tranne quando gioca con Bologna, Torino e Inter. E poi, visto che il mio cugino grande – che adesso fa il giornalista sportivo! – mi disse che teneva per il West Ham, facendomi capire che si poteva anche tifare oltreconfine: tifo Arsenal, Tottenham e tutte le altre squadre di Londra in Inghilterra; Atletico Madrid, Valencia e Athletic Bilbao in Spagna; Saint Etienne in Francia; tutti tranne il Bayern in Germania; eccetera, eccetera, eccetera. Con scelte a volte calcistiche ma più spesso ideologiche, e ancora più spesso completamente casuali (del Saint Etienne mi piaceva il nome, credo).

Ma a parte la gerarchia e l’internazionalizzazione del tifo, che farebbe felice l’ex ministro dell’istruzione Gelmini – che Dio la strabenedica – il Torino è una questione diversa. Intanto è l’altra squadra di Torino, ma per motivi storici si può tranquillamente sostenere che è la squadra di Torino, e che quegli altri sono l’altra squadra di Torino. E poi il Torino è la squadra di Valentino Mazzola – e dopo Superga, e con Sandrino Mazzola, e con le foto di Valentino che lega le scarpe da calcio a Sandrino, ci si può illudere che fra granata e nerazzurro ci sia una specie di legame ideale. Non è vero, e l’Inter degli anni Sessanta, come questa, era di proprietà di un petroliere, ma fa niente: il tifo non è razionale, semmai lo si può razionalizzare a posteriori. E quindi ce li prendiamo (anche) noi, i poeti e i prosatori che hanno scritto del grande Torino, e ci prendiamo un pezzetto di Valentino e di Puliciclone. E quindi noi siamo l’arte, la sconfitta gloriosa e la bella morte, e loro sono la civiltà delle macchine e gli orologi di marca. Loro sono i romani e noi i greci sconfitti, che alla fine hanno conquistato i vincitori e si sono pure portati a casa un Europeo.

Direte che non c’entra, ma ieri sera, all’ora dell’aperitivo, sono andato a sentire Giacomo Toni che suonava da solo. Giacomo Toni è il più grande cantautore italiano – lo dico sempre a tutti, e tutti credono che scherzi – e se oggi fossero gli anni Sessanta lui avrebbe già venduto milioni di dischi. Badate bene, dico cantautore nel senso che è uno che le canzoni se le scrive e se le canta, e non perché sia come gli altri cantautori italiani che tutti conoscono: Giacomo è un gran pianista, un grande musicista, e scrive canzoni, non testi messi in musica. Andatelo a cercare, compratevi i suoi album, ma intanto beccatevi un paio di versi a caso: ‘Sono un po’ in apprensione / Il nostro amore richiede la tua partecipazione.’ La citazione non gli fa per niente giustizia, ma è per dire che non c’è canzone di Giacomo Toni che non riservi qualche sorpresa. Questa, per esempio, è una canzone che ha scritto praticamente da ragazzino. E lui la canta guardando il pubblico con espressione severa.

Il posto in cui suonava Giacomo, ieri sera, era un bar alla periferia di Forlì – uno di quei bar che una volta erano solo bar, con la loro bella compagnia fissa da bar, e che invece adesso sono dei locali in cui si va a prendere l’aperitivo, e ogni tanto, cosa vuoi, bisogna chiamare qualcuno a suonare. Arredamenti molto belli, bancone-bunker quadrato molto elegante, champagne. Quando siamo arrivati, io e la Paola, era troppo presto come al solito, non c’era quasi nessuno. Giacomo era seduto a un tavolino con i suoi testi davanti agli occhi. Ci siamo seduti vicino a lui, con la solita paura di disturbare – Giacomo è molto più giovane di noi, ma in fondo al cuore è un romagnolo di centosessant’anni e hai sempre paura di disturbare – e abbiamo fatto due chiacchiere.

Dopo un po’ la gente ha cominciato ad arrivare, e noi abbiamo cominciato a preoccuparci. Di avventori ne arrivavano moltissimi, ma di pubblico, a giudicare dalle apparenze, poco. Passavano in rivista davanti al nostro tavolo – come se noi fossimo alti ufficiali, e loro reclute dell’aperitivo – giovani uomini con le sopracciglia ritoccate e giovani donne ritoccate da cima a fondo per l’occasione del sabato. Le giovani donne avevano l’aria di sopravvalutarsi parecchio, e i giovani uomini avevano quell’espressione allo stesso tempo attonita e sprezzante che le sopracciglia ritoccate non mancano mai di conferire ai loro portatori. Il fatto di sopravvalutarsi lo capisco, perché capita anche a me, con curva ascendente a partire dallo zero ascisse e ordinate che è l’ultima volta che mi sono guardato allo specchio. Anche l’espressione attonita la capisco, perché sono spesso attonito anch’io. Solo che nel corso della serata è diventato lampante che quei giovani uomini non erano veramente attoniti, ancorché lo sembrassero. Mentre noi forse non sembravamo attoniti, ma lo eravamo.

A locale ormai pieno, uno dei gestori ha cominciato ad affettare del prosciutto crudo e a tagliare del formaggio con un lungo coltello. È arrivato un buffet pieno di ottimi assaggini, alcuni dei quali tartufati. Nel locale, a questo punto, quasi tutte le cose inanimate erano di buon gusto.

Dopo qualche esitazione, Giacomo Toni si è messo al piano. Ha spostato i pomelli del mixer, si è aggiustato il microfono, si è versato il primo di diversi bicchieri di vino rosso. Si è guardato intorno. Ha spostato i pomelli del mixer, ha bevuto un lungo sorso di vino, si è aggiustato il microfono. Ha toccato un paio di tasti con la mano sinistra, ha detto ‘one, two, three, four’ nel microfono, lo ha spostato e ha aggiustato i pomelli del mixer. Ha dato un colpo di tosse esplorativo nel microfono. Ha sistemato le gambe sui pedali e le mani sui tasti, e ha cominciato a suonare. Ha eseguito una lunga introduzione strumentale, e poi si è messo a cantare. Giacomo ha una voce che potrebbe tirare giù il locale senza problemi, ma all’inizio si è messo a cantare così, quasi fra sé e sé, come per non rovinare il brusio.

Tutto intorno infuriava l’aperitivo. Il disinteresse era quasi completo. Il disinteresse non era nemmeno ostile, ma sorridente, paternalistico, stivalato e con le sopracciglia ritoccate. Giovani uomini e giovani donne avvicinavano le bocche alle orecchie per dirsi cose fondamentali, decisive, che non si potevano certo rimandare di un giorno o di un’ora. Volevano sapere come stavano, per Dio, che era da sabato scorso che non si vedevano, e a che ora erano arrivati e arrivate, e se era il primo, il secondo, o il terzo bicchiere, e se avevano visto Gibo. Ogni tanto qualche giovane uomo col calice tenuto alto davanti a sé, come a indicare che lui era uno che non si faceva certo dominare da un calice qualsiasi, si avvicinava al piano e annuiva. Sì – musica – conosco, sembrava dire. Pianoforte – già visto, buono, mi piace. Ogni tanto qualche giovane donna autosopravvalutata si accarezzava i capelli con le dita libere dal calice e guardava il pianista, con l’aria di chiedersi se la musica le donasse all’acconciatura. Ogni volta che Giacomo alzava la voce o aumentava la pressione sui tasti, il brusio tutto intorno diventava un rombo, ma dopo pochi istanti si placava, soddisfatto di avere ristabilito il suo primato sulla musica e sul silenzio. Alla fine di ogni canzone, noi due unici spettatori – più tardi, dopo una pausa, ne sarebbero arrivati altri due – rimanevamo sbalorditi: tutto intorno si levava un applauso proporzionato al ritmo del pezzo appena suonato, ma a parte poche eccezioni, non si vedevano mani che applaudivano.

In tutto questo, Giacomo Toni andava avanti con le sue canzoni. In questo brusio spezzato dai tuoni, Giacomo Toni suonava e cantava le sue canzoni serie e le sue canzoni comiche, le sue canzoni jazzate e le sue canzoni classicheggianti, le sue ballate e le sue canzoni da ballo. In questo tintinnare universale di spritz da cinque euro, Giacomo Toni eseguiva senza fare una singola piega un concerto per cui trenta euro sarebbero stati ben spesi. Al quarto bicchiere di vino, Giacomo Toni cominciava a declamare a memoria versi su versi del canto ventiseiesimo dell’Inferno, e uno dei giovani uomini gli annuiva dirimpetto come a dire io e te ci capiamo, io e te conosciamo le stesse cose, siamo fatti della stessa pasta, io e te. Quello è un microfono, vero? Conosco – ne ho visti, nella vita, di microfoni...

Alla fine del concerto, quando Giacomo ha ringraziato e si è alzato in piedi, si è trovato davanti due giovani donne tanto convinte di sé quanto traballanti sui tacchi del sabato. Non erano alte, quelle giovani donne, e i tacchi in qualche modo lo sottolineavano. Gli hanno chiesto una cosa nell’orecchio, e si è capito che volevano una canzone di Paolo Conte. Niente di male, per carità: una canzone di Paolo Conte. Lì c’era Giacomo Toni, forse loro non avevano sentito più di tre parole di tutto il concerto, perché dovevano chiedere come stavano e da quanto erano arrivati numerosi giovani uomini, e se avevano visto Gibo, e poi alla fine del giro richiederglielo perché nel frattempo era passato del tempo e quindi la risposta era cambiata, e anche Gibo magari era cambiato – insomma, avevano davanti Giacomo Toni e quindi giustamente gli chiedevano una canzone di Paolo Conte. Fossero andate a vedere un concerto di Paolo Conte, sicuramente gli avrebbero chiesto una canzone di Giacomo Toni. Le giovani donne fanno così. Giacomo si è schermito, ha detto che non si ricordava le parole, e allora un giovane uomo si è fatto avanti e ha detto, non c’è problema, me le ricordo io. Te mi accompagni e io canto. Perché i giovani uomini fanno così. Se fosse stato a un concerto di Paolo Conte, sicuramente gli avrebbe chiesto di accompagnarlo che lui cantava, se le ricordava lui le parole di ‘Un bel sabato’ di Giacomo Toni, nessun problema.

E allora Giacomo si è messo al piano, e lo ha accompagnato, e il giovane uomo cantava. Imitava un po’ la voce di Paolo Conte, o meglio, si capiva che voleva far capire che imitava un po’ la voce di Paolo Conte. E come il giovane uomo ha attaccato a cantare, tutti i suoi amici, ed erano parecchi, si sono messi a fare fotografie e filmati con i loro telefoni cellulari tenuti bene in alto – una bellissima scena, anche perché i telefoni erano tutti di ultima generazione – e si è creato un silenzio religioso che non c’era mai stato per tutta la serata. E Giacomo Toni ha continuato a suonare, e il giovane uomo che cantava si è dimenticato un po’ di parole. Per forza, il testo era lungo, complicato, chi non si dimentica un po’ di parole? Giacomo Toni una mezzora prima aveva saltellato come un capretto impazzito fra le sillabe delle sue canzoni comiche più geniali, ma quelle se le è scritte lui, bella forza, no?

Ed è stato in questo momento, quando Giacomo suggeriva le parole che aveva detto di non ricordare al giovane uomo che aveva detto di saperle a memoria, che li ho visti, sotto l’influsso dell’alcol e del mio normale stato di allucinazione nerazzurrogranata. Un uomo di altezza media, dal fisico possente, un po’ chino per tenere le mani sulle spalle di un bambino magro magro, dallo sguardo sveglio. Il bambino non voleva avvicinarsi – forse si vergognava un po’ perché sia lui sia il babbo erano vestiti da calcio, e avevano ai piedi scarpe coi tacchetti invernali, mentre tutti gli altri lì intorno erano vestiti da sera. Ma poi il babbo lo ha preso per mano e lui ha preso coraggio, e si sono avvicinati al piano. E quando si sono trovati davanti al piano il babbo si è accovacciato, ha girato la faccia del bambino verso gli amici del giovane uomo e gli ha detto:

‘Li vedi, Sandrino? Sono quelli della Juve. Qua dentro sono tutti della Juve. Te non fare mai come loro, mi raccomando. E invece vedi quello che suona? Lui è dell’Inter, e in più è un musicista, quindi è come se fosse anche un po’ del Torino. E infatti ha scritto una canzone dove racconta che va in piazza a festeggiare lo scudetto ma è triste perché la ragazza lo ha lasciato.’

Ed è così che mi sono ricordato che proprio quella sera era la sera del derby, che ormai era cominciato da un’oretta buona. E mi sono detto, tanto va a finire come al solito. Oggi i giornali erano pieni delle solite balle sul cuore Toro, e poi va a finire come al solito.

Quando sono arrivato a casa ho controllato, e infatti era andata a finire come al solito.