domenica 27 maggio 2012

7. Neve, buio, ragazzo scuro


28 aprile 2010: Barcellona-Inter 1-0
 
Sì, sì, d’accordo. Arriverò a parlare anche della Champions League. Anche perché parlarne per iscritto è più facile – non sono costretto a far finta di non sapere come si pronuncia, come mi capita quando sto parlando di calcio con uno che mi spiega che sì, d’accordo, il campionato, ma vuoi mettere la cempions? Anche perché è più difficile da vincere, la ciamps, basta una serata storta e tanti saluti. Ci vuole esperienza, per giocare in scians lig – e adesso vediamo, con sti ragazzini che abbiamo vinto quella specie di ciamps lig dei giovani, come si chiama, la necs generescion.
            E io, siccome ho sempre paura di esagerare da una parte o dall’altra, per non sembrare uno snob va a finire che dico coppa dei campioni, e faccio la figura dello snob.
            Oppure, più di rado, decido di dirlo in inglese, e allora è capace che mi viene fuori un accento assurdo – tipo scozzese, o indiano. Così il tizio che ho di fronte pensa ma guarda te questo, che gli danno anche dei soldi per insegnare l’INGLESE.
            Insomma, arriverò a parlare della Champions League, della tripletta (maledetto snob), del Tizio Speciale (arcisnob dei miei stivali), del Principe Milito (snobbino), di Balotelli, di Eto’o, dell’irrigazione del Camp Nou e compagnia bella. Non subito, però. Prima bisogna che spieghi perché della Champions League, della tripletta, del Tizio Speciale, di Milito, Balotelli e compagnia bella me ne frega il giusto. E capisco che ciò può sembrare in contraddizione con il fatto che quando Bojan ha segnato il gol che credevo eliminasse l’Inter, nella semifinale di ritorno del 2010 – e prima di capire che il gol era stato annullato – ho creduto di essere morto, e tutto sommato mi sembrava una condizione invidiabile rispetto a quella di tutti gli altri interisti vivi. Può sembrare in contraddizione, ma non lo è.
            Per capire perché il mio scarso interesse per la Champions League e il mio desiderio di morte per il timore di aver perso la Champions League del 2010 sono in contraddizione solo apparente, devo fare riferimento – nello spirito cartesiano tipico di questa rubrica – a una foto della cui esistenza non sono sicuro, che in ogni caso non ricordo bene, e che forse, e sottolineo forse, ho visto in un libro che non trovo più da nessuna parte. Avendo la memoria fatta di sottilette, non c’è speranza di cavarne qualcosa di più con uno sforzo razionale – anzi, con il surriscaldamento c’è caso che si sciolga del tutto. Per cui forse la procedura migliore è impressionistica e un po’ magica – farò finta di non conoscermi per leggermi nel pensiero da solo. E già che ci sono: in un posticino fresco, per via delle sottilette.
            Allora: c’è una gran nebbia, qui nella cella frigorifera, ma provo a distinguere qualcosa lo stesso. Parto dalla foto, dai particolari.
            Vedo Jair che corre verso l’obiettivo – o forse è fermo, nemmeno corre. Di sicuro è rivolto verso l’obiettivo e se ne sta in piedi in posa plastica, con le ginocchia lievemente flesse. A pensarci bene, se è rivolto verso l’obiettivo dev’essere vicino alla linea laterale o a quella di fondo. Difesa, attacco? Chi può dirlo – non vedo didascalie, forse non ce ne sono.
            Di sicuro c’è la neve. A meno che la foto non sia molto sgranata. Ma no, c’è di sicuro la neve. Nevica. Neve per aria, neve per terra. Un ragazzo brasiliano dalla pelle scura che se ne sta in mezzo alla neve con la palla fra i piedi. La palla è di un colore pastello, quasi non si vede. Perché nessuno contrasta il ragazzo dalla pelle scura? Forse non è un’azione di gioco. Forse è una foto scattata prima della partita, o dopo. Ma se è così, la posa è molto strana.
            Niente. O non sono capace di leggere nel pensiero, o non sono capace di leggere i prodotti caseari. A questo punto, tanto vale che racconti quel che mi ricordo del libro dove credo o mi illudo di aver visto quella foto, e se qualcuno quel libro ce l’ha o se lo ricorda, forse può aiutarmi. O forse non può aiutarmi nessuno che non abbia almeno un paio di specializzazioni.
            Andò così. A inizio anni Ottanta, quando è successo tutto quello che doveva succedere, qualcuno – credo il mio zio interista, ma non è detto; poteva anche essere il mio babbo milanista in un momento ecumenico – mi regalò questo libro sulla storia dell’Inter. Era un libro grande, con la base più lunga dell’altezza. C’era tutto, dalla fondazione coi baffoni allo scudetto di Bersellini. C’erano le foto, e c’erano dei dischi a 33 giri con le cronache in diretta dell’epoca. Io a casa non avevo il giradischi – ricordo ancora i vinili abbandonati in garage come doppioni di reperti archeologici – per cui quei dischi me li sono ascoltati a casa del mio nonno materno, che nel giradischi ci metteva le arie d’opera, Castellina Pasi e una grande orchestra americana che swingava tutti i grandi successi del rock e del pop.
            C’erano gli inglesi coi baffoni e il sergente di ferro, in quel libro, ma io ricordo soprattutto gli anni Sessanta, perché ero nato nel 1972 e gli anni Sessanta mi facevano un effetto che potete capire solo leggendo questo dialogo fra la Paola e nostro figlio:

            ‘Mamma, ma chi sono gli antichi romani?’
            ‘Sono dei dadi che vivevano tanto tempo fa.’
            (Francesco ci pensa su.)
            ‘Negli anni Ottanta?’
            ‘Ancora prima.’

            E gli anni Sessanta, naturalmente, erano quelli della grande Inter, dell’Inter che conoscevano a memoria anche quelli che non erano dell’Inter. Sarti, Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso. Gli anni Sessanta erano gli anni dell’Inter e del Milan, di Mazzola e Rivera, dell’ultimo grande Bologna, di Gigi Meroni con una gallina al guinzaglio, del Manchester United di Busby, di George Best che spendeva soldi in bere, donne e macchine e gli altri li sperperava, di Londra che swingava altro che l’orchestra di mio nonno, della gente che si vestiva come gli pareva, del libero amore e dell’India e del sesso che, secondo Philip Larkin, cominciò esattamente nel 1963, fra la fine della messa al bando di Lady Chatterley e il primo album dei Beatles.
            Solo che questa è roba che ho orecchiato o studiato dopo, e quindi conta poco o nulla. Gli anni Sessanta, per me, sono solo quel libro che non trovo più. Quel libro e quella foto che non ricordo, con un ragazzo nero nella neve che chissà poi cosa faceva col pallone e perché nessuno lo marcava. E chissà cosa facevano i miei, all’epoca della foto. Andavano ancora alle superiori. Mio babbo l’avrà guardata, quella partita? Le davano, in televisione?
            Gli anni Sessanta, per me, sono un ragazzo scuro e un pallone pastello. Le voci sgranate di Carosio e di chissà chi altro. Partite che non durano novanta minuti ma pochi secondi, come trasmissioni interrotte da un temporale, lampi scuri nella neve. Quell’Inter, per me, non è una squadra di calcio che prende un aereo o un pullman per andare a giocarsi una partita di qualche coppa europea. È una banda di esploratori mandati alla ventura in qualche terra ancora inesplorata, di quelle che nella cartina sono bianche, e ci sono i leoni, i troll e i coboldi. È un giovane mercenario nero che scopre la neve! È un ragazzo gracile coi baffetti che taglia il campo a fettine senza curarsi delle conseguenze (Vasas-Inter 0-2 dell’8 dicembre 1966, giocata a Budapest, gol di Mazzola: sì, questa l’ho vista su youtube).
            Si può fare meglio di così?
            No, non si può fare meglio. Per cui, scusatemi, cosa volete che me ne freghi di Mourinho e di Milito? Sì, d’accordo, lo ammetto: quando Balotelli è entrato nella semifinale d’andata del 2010, col Barcellona, ero lì in piedi che gli urlavo di darsi una mossa come se potesse sentirmi: non vedeva che i suoi compagni stavano difendendo eroicamente il suolo patrio? Quando Bojan ha segnato il gol del 2-0, al ritorno, io mi sono buttato in avanti con un urlo strozzato, e finché non ho capito che l’avevano annullato sono rimasto lì, con la fronte sul pavimento, una cosa sola con la graniglia. Quando il Bayern attaccava, in finale, e quelli dell’Inter difendevano dopo aver segnato due gol senza nemmeno degnarsi di varcare il centrocampo, facendo affidamento solo sulla consapevolezza infondata della propria grandezza, io difendevo con loro, stringendo tutta una serie di muscoli innominabili per favorire ogni spaccata di Lucio e ogni colpo di testa di Samuel. Quando finalmente quella partita è finita, io mi sono sentito patriota della nazione nerazzurra, e se Mourinho mi avesse ordinato di invadere la Libia, l’avrei fatto senza esitazioni. Altro che scatolone di sabbia!
            Ma era comunque un’altra cosa. Perché anche nell’atto di imbucare la mia dichiarazione di guerra al povero Gheddafi, sarei stato comunque consapevole del fatto che Mourinho era un paraculo di successo, che la vittoria non aveva niente di leggendario e inevitabile, e che il gioco di quella che di lì in poi sarebbe passata per una grandissima squadra – anche ai propri stessi occhi – era improntato a quello di noialtri, da piccoli, quando si giocava con i ragazzini di due o tre anni più grandi. Tutti dietro, calci negli stinchi e viva il parroco.
            Come si fa a paragonare una cosa del genere a una foto che ritrae un ragazzo nero nella neve? La Coppa dei Campioni 2009-2010 è una sequela di partite di calcio, molte giocate anche maluccio. La Coppa dei Campioni 1966-1967, per dire (quella di Vasas-Inter 0-2), è una spedizione antartica. Che importa se la spedizione antartica non è andata a buon fine? Vogliamo parlare di Scott e Amundsen?
            Scherzi della memoria, direte voi – scherzi del formaggio compattato, li chiamerei io – e lo direte soprattutto se siete nati negli anni Cinquanta e quel mondo l’avete visto in diretta e a colori. Inganni del color seppia. Il vecchio che ti sembra meglio e invece è solo vecchio.
            E avete ragione. È proprio così. Come ho già detto altrove, bisogna guardare in faccia le cose. E allora beccatevi quest’altra foto – questa ce l’ho sotto gli occhi, non è uno scherzo della memoria. Fatevi un bel salto all’indietro anche voi, e vediamo come ne uscite.
            È così: c’è un signore vestito da calcio inginocchiato davanti a un bambino vestito da calcio. Il bambino è in piedi. Il signore ha l’aria concentrata – sta legando qualcosa, forse un laccetto, intorno al calzettone del bambino, appena sotto il ginocchio. Il bambino si guarda il ginocchio. Il signore è magro ma poderoso, il bambino è gracile. Sono su un prato. Sullo sfondo ci sono una siepe, un albero, una ringhiera e due case viste di profilo. Si intravede un terrazzo. La linea che separa l’ombra dal sole taglia di due terzi una finestra al secondo piano. La finestra ha le imposte chiuse.
            Il signore è Valentino Mazzola. Il bambino è suo figlio Sandro.
            E Sandro Mazzola, a suo padre Valentino, non gli ha mai visto giocare né la Coppa dei Campioni né la Champions League.

lunedì 7 maggio 2012

6. Exit ghost

6 maggio 2012: Inter-Milan 4-2


Che cosa c’entra, direte voi, la morte di un ragazzo che conoscevo con il derby di ieri sera? Non lo so. Forse niente. Vedremo.
Il ragazzo in questione è morto un anno fa, più o meno – e dico ragazzo perchè noi nati a inizio anni Settanta abbiamo il dubbio privilegio di rimanere ragazzi fino alla fine. Il giorno esatto non lo ricordo. Non posso dire che fosse proprio un mio amico, e neanche che non lo fosse. Non era un collega e non facevamo mai niente insieme, se non vederci e fare due chiacchiere un paio di volte all’anno, così, un po’ per caso. Tutto questo rende piuttosto difficile buttare giù un necrologio. Ma per fortuna, questo non è un necrologio.
Davide – per capirci lo chiameremo così, perché è più facile capirsi quando si chiamano le persone col loro vero nome – era scuro di capelli e di sguardo. Aveva le sopracciglia folte e la risata improvvisa e roca. Quando rideva, non ti aspettavi che ridesse così, scoperto, quasi scomposto: e forse era per questo che piaceva alle donne. Per questo, e perché le donne gli piacevano (sopra ogni altra cosa, credo) e lui glielo faceva capire sempre, anche quando non ci provava. Ma questo è solo il mio ricordo, e io, come dicevo, ci parlavo un paio di volte all’anno. Ah, e mi ricordo una frase, detta sulla corriera da Canterbury a Londra. Era mattino, e la sera prima aveva bevuto molta birra. ‘Ah, Moro, hai presente quella cosa che dicono che quando sei ubriaco non riesci a... beh, non è mica vera.’
Io non avevo presente.
Forse perché non eravamo proprio amici, ma neanche no, io faccio più fatica di altri a sentire che è qui in mezzo a noi, a tenere vivo il suo ricordo, e tutto questo genere di cose. Non lo faccio apposta: è solo che lo vedevo un paio di volte all’anno, e ogni volta che penso a lui mi viene in mente il momento, che ci sarà stato, in cui si è reso conto che da lì in poi la sua vita sarebbe stata dolore fisico senza ritorno, e per poco tempo. Di questo mi scuso con tutti i suoi amici più intimi e con i suoi familiari, che hanno bisogno di altri ricordi: ma il fatto è che Davide è stato il primo ragazzo della nostra generazione, di quelli che conoscevo io, a morire di una malattia da adulti, non di un incidente da ragazzi. Quando succede una cosa così, nuda e sconcia, la morte non è più un momento di panico nel cuore della notte, ma un prurito continuo alle ossa.
Di Davide, per quel che mi ricordo, posso dire anche un’altra cosa: mi sono sempre chiesto se a me mostrasse solo la superficie o se fosse veramente così, tutto superficie. Evito l’aggettivo superficiale perché ha una connotazione negativa, e richiama altri aggettivi come vacuo e ottuso. Lui non mi ha mai dato l’impressione di essere superficiale in quel senso: solo, mi sembrava tutto a fior di pelle. Epicureo. Come un gatto, o come un giapponese. Come un gatto giapponese. Ma forse era un gatto giapponese solo con me – mi si concedeva poco. Chissà.
Se cerco di spingere la testa oltre la soglia dei primi pensieri che mi evoca il suo nome, mi vengono in mente due discussioni che abbiamo avuto. Due litigate, quasi – ma litigate dialettiche, di quelle in cui si bada all’argomento e non si va sul personale. La prima risale ai nostri vent’anni. Lui era di sinistra – io anche, ma meno. Lui da piazza e da volantino, io da salotto e da giornale. Eravamo in un qualche bar fuori Forlì in cui lavorava – mi sembra di ricordare – la sua morosa, che era anche mia amica. Per immaginarvi la scena, pensate al grigiore normale di Forlì moltiplicato per dieci, e con i muri scrostati. A un certo punto, forse per mancanza di argomenti e per non fare caso ai muri scrostati, comincia una discussione su un punto molto controverso della filosofia occidentale: se quelli di destra (definizione di Davide: i fascisti) siano naturalmente stupidi. Io forse prendo le parti di quelli di destra perché nel gioco dialettico non posso farne a meno, ma ricordo che a un certo punto sono sinceramente colpito dal fatto che Davide sembra crederci sul serio.
Mi perdonino gli amici e i familiari di Davide: le battute del dialogo le ricordo solo sotto forma di colpi tennistici – le parole mi tocca inventarmele, più o meno.

M: No, perché quando parlo con le poche persone di destra intelligenti che conosco –
D: Cioè, in che senso, scusa?
M: Eh, perché le persone di destra, se sono intelligenti, fanno fatica a giustificare che l’hanno votato.
D: No, vabbè, ma le persone di destra intelligenti non esistono proprio.
M: Ah, no?
D: No, cioè, secondo me uno non può essere di destra ed essere intelligente. Cioè, secondo me sono proprio due cose che non c’entrano niente una con l’altra. [Ride] Perlomeno in Italia. No, anzi, guarda – dappertutto.
M: No, dai, a questo non ci credo. Secondo me non ci credi neanche tu. Lo dici così, ma non ci credi veramente.
D: [ride] No, no, guarda che – davvero, per me è così. Cioè, se sei veramente intelligente fai un ragionamento e capisci che non puoi essere di destra. Non puoi essere veramente di destra, se sei intelligente.
M: Ma quindi neanche votare a destra?
D: No, scusa, in che senso?
M: Beh, magari uno non è proprio di destra, però in un certo momento e in una certa situazione pensa che sia meglio votare a destra.
D: [dubbioso] Oddio, votare a destra forse [ci pensa su] ma no, in realtà alla fine è la stessa cosa. No, secondo me no.
M: E quindi Ezra Pound era un povero idiota?
D: [dopo un’esitazione] Uei, alla fine secondo me sì.
M: Ah, quindi uno che ha scritto i Cantos era un povero idiota.
D: Ssì. Cioè, magari non lo era quando scriveva poesie, però in quell’altra cosa era un idiota.
M: Ah, quindi non era un idiota totale.
[…]

Se sembra che io ci faccia una gran bella figura, in questo dialogo, posso dire che ricordo almeno duecento conversazioni (con altre persone) in cui la parte dell’estremista è toccata a me. Tutti i maschi alfa lo sanno: è come un gioco di società, non possiamo mica metterci a sbattere i petti ululando ogni volta che incontriamo un rivale. E posso anche aggiungere che all’epoca, di Pound, non avevo letto un singolo rigo. Altro che Cantos di ’sta cippa. E adesso che un po’ di Pound l’ho letto, posso dire che secondo me non era un grande poeta, e in certe cose era completamente accecato dal suo essere un maschio alfa.
La seconda discussione risale a tre o quattro anni fa – prima che scoprisse di essere malato, comunque, di questo sono sicuro. Eravamo a casa di amici, in salotto, e a un certo punto abbiamo cominciato ad alzare la voce. Immaginatevi la scena: è il salotto di una coppia di amici culturalmente e politicamente consapevoli, e questi due energumeni si mettono a berciare di calcio, manco fosse il bar sport. È in questa occasione che scopro, con grandissima sorpresa e un certo sdegno, che Davide è juventino. Ma come, penso, gli scioperi generali, tutte le persone di destra sono stupide, e tieni per la squadra dei padroni e delle autostrade? Non vedi la differenza con quest’altra squadra che perlomeno non porta una maglia con due non-colori e ha come padrone uno che sì, va bene, in teoria è petroliere, ma vuoi mettere, gli piace tanto l’Inghilterra, è così signorile...

D: [sorride] Vabbè, voi per vincere avete dovuto fare il colpo di stato...
M: [non sorride per niente] Cioè, in che senso, scusa?
D: Eh, dai, il vostro Tronchetti Provera che ha raccolto tutte le sue telefonate, poi ha scelto solo quelle che gli convenivano.
M: [completamente fuori di sé da subito] Ma dai, su, non scherziamo. Cioè, adesso non mi vorrai dire che Moggi non era un delinquente? Ma per favore!
D: Certo che era un delinquente. Faceva quello che facevano tutti – solo che lui lo faceva meglio.
M: [gesticolando e buttando indietro la testa] Ma dai, ma come fai a sostenere anche tu una cazzata del genere? Guarda, per me questa cosa è incredibile. Cioè, il fatto che in Italia non si riesca a parlare di calcio in modo serio. Ma ti rendi conto? Questo qua a un certo punto ha perso il senso del limite, si è convinto che poteva fare quello che gli pareva e l’ha pagata. Oh, ma io mi ricordo uno Juve-Milan, cos’era, il duemilaecinque, a un certo punto Kakà sta andando in porta da solo e gli fischiano fallo a favore – a favore! – un quarto d’ora dopo che gliel’hanno fatto.
D: Sì, vabbè, guarda, questa cosa degli episodi tanto non ha senso. Ve ne ricordate cinquanta a vostro favore e tutti gli altri invece... E il Perugia, allora? E Collina che ci fa giocare in una palude?
M: Episodi? Episodi? Guardachenonosonmicapisodieh, miricordonbolognauvechelarbitrononafischiatopeibolognapemezzorpoiallafine... [eccetera]
D: [alterato anche lui, molto più che nella discussione sulla destra e la stupidità] Dai, che poi come si fa a prendersi uno scudetto regalato così, fa proprio tristezza, bisogna proprio essere una squadra triste.
M: [dogmatico, col dito puntato verso il basso] E invece no! Invece no! Perché lo scudetto del Novantotto era nostro, ce l’avete fregato con gli arbitri e l’epo, e allora noi adesso questo ce lo prendiamo e ce lo teniamo, capito?
[…]

Ho detto che Davide non era proprio un mio amico, e che per questo motivo per me è più facile ricordarmi gli ultimi anni che il resto. Vero, ma è anche vero che quelle due chiacchierate all’anno mi mancheranno. Su un sacco di cose, molte più di me, Davide era lucido e informato. Peccato: il mio nonno paterno non potrà più parlarmi di com’era il mondo negli anni Dieci, il mio nonno materno non potrà più descrivermi il campo di prigionia inglese in cui l’avevano rinchiuso durante la seconda guerra mondiale, e Davide non potrà più descrivermi il Tagikistan.
Per fortuna, delle cose veramente importanti avevamo fatto in tempo a parlare.