28 aprile 2010: Barcellona-Inter 1-0
Sì, sì, d’accordo. Arriverò a parlare anche
della Champions League. Anche perché parlarne per iscritto è più facile – non
sono costretto a far finta di non sapere come si pronuncia, come mi capita
quando sto parlando di calcio con uno che mi spiega che sì, d’accordo, il
campionato, ma vuoi mettere la cempions? Anche perché è più difficile da
vincere, la ciamps, basta una serata storta e tanti saluti. Ci vuole
esperienza, per giocare in scians lig – e adesso vediamo, con sti ragazzini che
abbiamo vinto quella specie di ciamps lig dei giovani, come si chiama, la necs
generescion.
E
io, siccome ho sempre paura di esagerare da una parte o dall’altra, per non
sembrare uno snob va a finire che dico coppa dei campioni, e faccio la figura
dello snob.
Oppure,
più di rado, decido di dirlo in inglese, e allora è capace che mi viene fuori
un accento assurdo – tipo scozzese, o indiano. Così il tizio che ho di fronte
pensa ma guarda te questo, che gli danno anche dei soldi per insegnare l’INGLESE.
Insomma,
arriverò a parlare della Champions League, della tripletta (maledetto snob),
del Tizio Speciale (arcisnob dei miei stivali), del Principe Milito (snobbino),
di Balotelli, di Eto’o, dell’irrigazione del Camp Nou e compagnia bella. Non
subito, però. Prima bisogna che spieghi perché della Champions League, della
tripletta, del Tizio Speciale, di Milito, Balotelli e compagnia bella me ne
frega il giusto. E capisco che ciò può sembrare in contraddizione con il fatto
che quando Bojan ha segnato il gol che credevo eliminasse l’Inter, nella
semifinale di ritorno del 2010 – e prima di capire che il gol era stato
annullato – ho creduto di essere morto, e tutto sommato mi sembrava una
condizione invidiabile rispetto a quella di tutti gli altri interisti vivi. Può
sembrare in contraddizione, ma non lo è.
Per
capire perché il mio scarso interesse per la Champions League e il mio
desiderio di morte per il timore di aver perso la Champions League del 2010
sono in contraddizione solo apparente, devo fare riferimento – nello spirito
cartesiano tipico di questa rubrica – a una foto della cui esistenza non sono
sicuro, che in ogni caso non ricordo bene, e che forse, e sottolineo forse, ho
visto in un libro che non trovo più da nessuna parte. Avendo la memoria fatta
di sottilette, non c’è speranza di cavarne qualcosa di più con uno sforzo
razionale – anzi, con il surriscaldamento c’è caso che si sciolga del tutto.
Per cui forse la procedura migliore è impressionistica e un po’ magica – farò
finta di non conoscermi per leggermi nel pensiero da solo. E già che ci sono:
in un posticino fresco, per via delle sottilette.
Allora:
c’è una gran nebbia, qui nella cella frigorifera, ma provo a distinguere
qualcosa lo stesso. Parto dalla foto, dai particolari.
Vedo
Jair che corre verso l’obiettivo – o forse è fermo, nemmeno corre. Di sicuro è
rivolto verso l’obiettivo e se ne sta in piedi in posa plastica, con le
ginocchia lievemente flesse. A pensarci bene, se è rivolto verso l’obiettivo
dev’essere vicino alla linea laterale o a quella di fondo. Difesa, attacco? Chi
può dirlo – non vedo didascalie, forse non ce ne sono.
Di
sicuro c’è la neve. A meno che la foto non sia molto sgranata. Ma no, c’è di
sicuro la neve. Nevica. Neve per aria, neve per terra. Un ragazzo brasiliano
dalla pelle scura che se ne sta in mezzo alla neve con la palla fra i piedi. La
palla è di un colore pastello, quasi non si vede. Perché nessuno contrasta il
ragazzo dalla pelle scura? Forse non è un’azione di gioco. Forse è una foto
scattata prima della partita, o dopo. Ma se è così, la posa è molto strana.
Niente.
O non sono capace di leggere nel pensiero, o non sono capace di leggere i
prodotti caseari. A questo punto, tanto vale che racconti quel che mi ricordo
del libro dove credo o mi illudo di aver visto quella foto, e se qualcuno quel
libro ce l’ha o se lo ricorda, forse può aiutarmi. O forse non può aiutarmi
nessuno che non abbia almeno un paio di specializzazioni.
Andò
così. A inizio anni Ottanta, quando è successo tutto quello che doveva succedere,
qualcuno – credo il mio zio interista, ma non è detto; poteva anche essere il
mio babbo milanista in un momento ecumenico – mi regalò questo libro sulla
storia dell’Inter. Era un libro grande, con la base più lunga dell’altezza.
C’era tutto, dalla fondazione coi baffoni allo scudetto di Bersellini. C’erano
le foto, e c’erano dei dischi a 33 giri con le cronache in diretta dell’epoca.
Io a casa non avevo il giradischi – ricordo ancora i vinili abbandonati in
garage come doppioni di reperti archeologici – per cui quei dischi me li sono
ascoltati a casa del mio nonno materno, che nel giradischi ci metteva le arie
d’opera, Castellina Pasi e una grande orchestra americana che swingava tutti i
grandi successi del rock e del pop.
C’erano
gli inglesi coi baffoni e il sergente di ferro, in quel libro, ma io ricordo
soprattutto gli anni Sessanta, perché ero nato nel 1972 e gli anni Sessanta mi
facevano un effetto che potete capire solo leggendo questo dialogo fra la Paola
e nostro figlio:
‘Mamma,
ma chi sono gli antichi romani?’
‘Sono
dei dadi che vivevano tanto tempo fa.’
(Francesco
ci pensa su.)
‘Negli
anni Ottanta?’
‘Ancora
prima.’
E
gli anni Sessanta, naturalmente, erano quelli della grande Inter, dell’Inter
che conoscevano a memoria anche quelli che non erano dell’Inter. Sarti,
Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini,
Suarez, Corso. Gli anni Sessanta erano gli anni dell’Inter e del Milan, di
Mazzola e Rivera, dell’ultimo grande Bologna, di Gigi Meroni con una gallina al
guinzaglio, del Manchester United di Busby, di George Best che spendeva soldi
in bere, donne e macchine e gli altri li sperperava, di Londra che swingava
altro che l’orchestra di mio nonno, della gente che si vestiva come gli pareva,
del libero amore e dell’India e del sesso che, secondo Philip Larkin, cominciò
esattamente nel 1963, fra la fine della messa al bando di Lady Chatterley e il
primo album dei Beatles.
Solo
che questa è roba che ho orecchiato o studiato dopo, e quindi conta poco o
nulla. Gli anni Sessanta, per me, sono solo quel libro che non trovo più. Quel
libro e quella foto che non ricordo, con un ragazzo nero nella neve che chissà
poi cosa faceva col pallone e perché nessuno lo marcava. E chissà cosa facevano
i miei, all’epoca della foto. Andavano ancora alle superiori. Mio babbo l’avrà
guardata, quella partita? Le davano, in televisione?
Gli
anni Sessanta, per me, sono un ragazzo scuro e un pallone pastello. Le voci
sgranate di Carosio e di chissà chi altro. Partite che non durano novanta
minuti ma pochi secondi, come trasmissioni interrotte da un temporale, lampi
scuri nella neve. Quell’Inter, per me, non è una squadra di calcio che prende
un aereo o un pullman per andare a giocarsi una partita di qualche coppa
europea. È una banda di esploratori mandati alla ventura in qualche terra
ancora inesplorata, di quelle che nella cartina sono bianche, e ci sono i
leoni, i troll e i coboldi. È un giovane mercenario nero che scopre la neve! È
un ragazzo gracile coi baffetti che taglia il campo a fettine senza curarsi
delle conseguenze (Vasas-Inter 0-2 dell’8 dicembre 1966, giocata a Budapest,
gol di Mazzola: sì, questa l’ho vista su youtube).
Si
può fare meglio di così?
No,
non si può fare meglio. Per cui, scusatemi, cosa volete che me ne freghi di
Mourinho e di Milito? Sì, d’accordo, lo ammetto: quando Balotelli è entrato
nella semifinale d’andata del 2010, col Barcellona, ero lì in piedi che gli
urlavo di darsi una mossa come se potesse sentirmi: non vedeva che i suoi
compagni stavano difendendo eroicamente il suolo patrio? Quando Bojan ha
segnato il gol del 2-0, al ritorno, io mi sono buttato in avanti con un urlo
strozzato, e finché non ho capito che l’avevano annullato sono rimasto lì, con
la fronte sul pavimento, una cosa sola con la graniglia. Quando il Bayern
attaccava, in finale, e quelli dell’Inter difendevano dopo aver segnato due gol
senza nemmeno degnarsi di varcare il centrocampo, facendo affidamento solo
sulla consapevolezza infondata della propria grandezza, io difendevo con loro, stringendo
tutta una serie di muscoli innominabili per favorire ogni spaccata di Lucio e
ogni colpo di testa di Samuel. Quando finalmente quella partita è finita, io mi
sono sentito patriota della nazione nerazzurra, e se Mourinho mi avesse
ordinato di invadere la Libia, l’avrei fatto senza esitazioni. Altro che
scatolone di sabbia!
Ma
era comunque un’altra cosa. Perché anche nell’atto di imbucare la mia
dichiarazione di guerra al povero Gheddafi, sarei stato comunque consapevole
del fatto che Mourinho era un paraculo di successo, che la vittoria non aveva
niente di leggendario e inevitabile, e che il gioco di quella che di lì in poi
sarebbe passata per una grandissima squadra – anche ai propri stessi occhi –
era improntato a quello di noialtri, da piccoli, quando si giocava con i
ragazzini di due o tre anni più grandi. Tutti dietro, calci negli stinchi e
viva il parroco.
Come
si fa a paragonare una cosa del genere a una foto che ritrae un ragazzo nero
nella neve? La Coppa dei Campioni 2009-2010 è una sequela di partite di calcio,
molte giocate anche maluccio. La Coppa dei Campioni 1966-1967, per dire (quella
di Vasas-Inter 0-2), è una spedizione antartica. Che importa se la spedizione
antartica non è andata a buon fine? Vogliamo parlare di Scott e Amundsen?
Scherzi
della memoria, direte voi – scherzi del formaggio compattato, li chiamerei io –
e lo direte soprattutto se siete nati negli anni Cinquanta e quel mondo l’avete
visto in diretta e a colori. Inganni del color seppia. Il vecchio che ti sembra
meglio e invece è solo vecchio.
E
avete ragione. È proprio così. Come ho già detto altrove, bisogna guardare in
faccia le cose. E allora beccatevi quest’altra foto – questa ce l’ho sotto gli
occhi, non è uno scherzo della memoria. Fatevi un bel salto all’indietro anche
voi, e vediamo come ne uscite.
È
così: c’è un signore vestito da calcio inginocchiato davanti a un bambino
vestito da calcio. Il bambino è in piedi. Il signore ha l’aria concentrata –
sta legando qualcosa, forse un laccetto, intorno al calzettone del bambino,
appena sotto il ginocchio. Il bambino si guarda il ginocchio. Il signore è
magro ma poderoso, il bambino è gracile. Sono su un prato. Sullo sfondo ci sono
una siepe, un albero, una ringhiera e due case viste di profilo. Si intravede
un terrazzo. La linea che separa l’ombra dal sole taglia di due terzi una
finestra al secondo piano. La finestra ha le imposte chiuse.
Il
signore è Valentino Mazzola. Il bambino è suo figlio Sandro.
E
Sandro Mazzola, a suo padre Valentino, non gli ha mai visto giocare né la Coppa
dei Campioni né la Champions League.