Che cosa c’entra, direte voi, la morte di un ragazzo che conoscevo con il
derby di ieri sera? Non lo so. Forse niente. Vedremo.
Il ragazzo in questione è morto un anno fa, più o
meno – e dico ragazzo perchè noi nati a inizio anni Settanta abbiamo il dubbio
privilegio di rimanere ragazzi fino alla fine. Il giorno esatto non lo ricordo.
Non posso dire che fosse proprio un mio amico, e neanche che non lo fosse. Non
era un collega e non facevamo mai niente insieme, se non vederci e fare due
chiacchiere un paio di volte all’anno, così, un po’ per caso. Tutto questo
rende piuttosto difficile buttare giù un necrologio. Ma per fortuna, questo non
è un necrologio.
Davide – per capirci lo chiameremo così, perché è
più facile capirsi quando si chiamano le persone col loro vero nome – era scuro
di capelli e di sguardo. Aveva le sopracciglia folte e la risata improvvisa e
roca. Quando rideva, non ti aspettavi che ridesse così, scoperto, quasi
scomposto: e forse era per questo che piaceva alle donne. Per questo, e perché
le donne gli piacevano (sopra ogni altra cosa, credo) e lui glielo faceva
capire sempre, anche quando non ci provava. Ma questo è solo il mio ricordo, e
io, come dicevo, ci parlavo un paio di volte all’anno. Ah, e mi ricordo una
frase, detta sulla corriera da Canterbury a Londra. Era mattino, e la sera
prima aveva bevuto molta birra. ‘Ah, Moro, hai presente quella cosa che dicono
che quando sei ubriaco non riesci a... beh, non è mica vera.’
Io non avevo presente.
Forse perché non eravamo proprio amici, ma neanche
no, io faccio più fatica di altri a sentire che è qui in mezzo a noi, a tenere
vivo il suo ricordo, e tutto questo genere di cose. Non lo faccio apposta: è
solo che lo vedevo un paio di volte all’anno, e ogni volta che penso a lui mi
viene in mente il momento, che ci sarà stato, in cui si è reso conto che da lì
in poi la sua vita sarebbe stata dolore fisico senza ritorno, e per poco tempo.
Di questo mi scuso con tutti i suoi amici più intimi e con i suoi familiari,
che hanno bisogno di altri ricordi: ma il fatto è che Davide è stato il primo
ragazzo della nostra generazione, di quelli che conoscevo io, a morire di una
malattia da adulti, non di un incidente da ragazzi. Quando succede una cosa
così, nuda e sconcia, la morte non è più un momento di panico nel cuore della
notte, ma un prurito continuo alle ossa.
Di Davide, per quel che mi ricordo, posso dire
anche un’altra cosa: mi sono sempre chiesto se a me mostrasse solo la
superficie o se fosse veramente così, tutto superficie. Evito l’aggettivo
superficiale perché ha una connotazione negativa, e richiama altri aggettivi
come vacuo e ottuso. Lui non mi ha mai dato l’impressione di essere
superficiale in quel senso: solo, mi sembrava tutto a fior di pelle. Epicureo.
Come un gatto, o come un giapponese. Come un gatto giapponese. Ma forse era un
gatto giapponese solo con me – mi si concedeva poco. Chissà.
Se cerco di spingere la testa oltre la soglia dei
primi pensieri che mi evoca il suo nome, mi vengono in mente due discussioni
che abbiamo avuto. Due litigate, quasi – ma litigate dialettiche, di quelle in
cui si bada all’argomento e non si va sul personale. La prima risale ai nostri
vent’anni. Lui era di sinistra – io anche, ma meno. Lui da piazza e da volantino,
io da salotto e da giornale. Eravamo in un qualche bar fuori Forlì in cui
lavorava – mi sembra di ricordare – la sua morosa, che era anche mia amica. Per
immaginarvi la scena, pensate al grigiore normale di Forlì moltiplicato per
dieci, e con i muri scrostati. A un certo punto, forse per mancanza di
argomenti e per non fare caso ai muri scrostati, comincia una discussione su un
punto molto controverso della filosofia occidentale: se quelli di destra
(definizione di Davide: i fascisti) siano naturalmente stupidi. Io forse prendo
le parti di quelli di destra perché nel gioco dialettico non posso farne a
meno, ma ricordo che a un certo punto sono sinceramente colpito dal fatto che
Davide sembra crederci sul serio.
Mi perdonino gli amici e i familiari di Davide: le
battute del dialogo le ricordo solo sotto forma di colpi tennistici – le parole
mi tocca inventarmele, più o meno.
M: No, perché quando parlo con le poche persone di destra intelligenti che
conosco –
D: Cioè, in che senso, scusa?
M: Eh, perché le persone di destra, se sono intelligenti, fanno fatica a
giustificare che l’hanno votato.
D: No, vabbè, ma le persone di destra intelligenti non esistono proprio.
M: Ah, no?
D: No, cioè, secondo me uno non può essere di destra ed essere
intelligente. Cioè, secondo me sono proprio due cose che non c’entrano niente
una con l’altra. [Ride] Perlomeno in Italia. No, anzi, guarda – dappertutto.
M: No, dai, a questo non ci credo. Secondo me non ci credi neanche tu. Lo
dici così, ma non ci credi veramente.
D: [ride] No, no, guarda che – davvero, per me è così. Cioè, se sei
veramente intelligente fai un ragionamento e capisci che non puoi essere di
destra. Non puoi essere veramente di destra, se sei intelligente.
M: Ma quindi neanche votare a destra?
D: No, scusa, in che senso?
M: Beh, magari uno non è proprio di destra, però in un certo momento e in
una certa situazione pensa che sia meglio votare a destra.
D: [dubbioso] Oddio, votare a destra forse [ci pensa su] ma no, in realtà
alla fine è la stessa cosa. No, secondo me no.
M: E quindi Ezra Pound era un povero idiota?
D: [dopo un’esitazione] Uei, alla fine secondo me sì.
M: Ah, quindi uno che ha scritto i Cantos era un povero idiota.
D: Ssì. Cioè, magari non lo era quando scriveva poesie, però in quell’altra
cosa era un idiota.
M: Ah, quindi non era un idiota totale.
[…]
Se sembra che io ci faccia una gran bella figura,
in questo dialogo, posso dire che ricordo almeno duecento conversazioni (con
altre persone) in cui la parte dell’estremista è toccata a me. Tutti i maschi
alfa lo sanno: è come un gioco di società, non possiamo mica metterci a
sbattere i petti ululando ogni volta che incontriamo un rivale. E posso anche
aggiungere che all’epoca, di Pound, non avevo letto un singolo rigo. Altro che
Cantos di ’sta cippa. E adesso che un po’ di Pound l’ho letto, posso dire che
secondo me non era un grande poeta, e in certe cose era completamente
accecato dal suo essere un maschio alfa.
La seconda discussione risale a tre o quattro anni
fa – prima che scoprisse di essere malato, comunque, di questo sono sicuro.
Eravamo a casa di amici, in salotto, e a un certo punto abbiamo cominciato ad
alzare la voce. Immaginatevi la scena: è il salotto di una coppia di amici
culturalmente e politicamente consapevoli, e questi due energumeni si mettono a
berciare di calcio, manco fosse il bar sport. È in questa occasione che scopro,
con grandissima sorpresa e un certo sdegno, che Davide è juventino. Ma come,
penso, gli scioperi generali, tutte le persone di destra sono stupide, e tieni
per la squadra dei padroni e delle autostrade? Non vedi la differenza con
quest’altra squadra che perlomeno non porta una maglia con due non-colori e ha
come padrone uno che sì, va bene, in teoria è petroliere, ma vuoi mettere, gli
piace tanto l’Inghilterra, è così signorile...
D: [sorride] Vabbè, voi per vincere avete dovuto fare il colpo di stato...
M: [non sorride per niente] Cioè, in che senso, scusa?
D: Eh, dai, il vostro Tronchetti Provera che ha raccolto tutte le sue
telefonate, poi ha scelto solo quelle che gli convenivano.
M: [completamente fuori di sé da subito] Ma dai, su, non scherziamo. Cioè,
adesso non mi vorrai dire che Moggi non era un delinquente? Ma per favore!
D: Certo che era un delinquente. Faceva quello che facevano tutti – solo
che lui lo faceva meglio.
M: [gesticolando e buttando indietro la testa] Ma dai, ma come fai a
sostenere anche tu una cazzata del genere? Guarda, per me questa cosa è
incredibile. Cioè, il fatto che in Italia non si riesca a parlare di calcio in
modo serio. Ma ti rendi conto? Questo qua a un certo punto ha perso il senso
del limite, si è convinto che poteva fare quello che gli pareva e l’ha pagata.
Oh, ma io mi ricordo uno Juve-Milan, cos’era, il duemilaecinque, a un certo
punto Kakà sta andando in porta da solo e gli fischiano fallo a favore – a
favore! – un quarto d’ora dopo che gliel’hanno fatto.
D: Sì, vabbè, guarda, questa cosa degli episodi tanto non ha senso. Ve ne
ricordate cinquanta a vostro favore e tutti gli altri invece... E il Perugia,
allora? E Collina che ci fa giocare in una palude?
M: Episodi? Episodi? Guardachenonosonmicapisodieh,
miricordonbolognauvechelarbitrononafischiatopeibolognapemezzorpoiallafine...
[eccetera]
D: [alterato anche lui, molto più che nella discussione sulla destra e la
stupidità] Dai, che poi come si fa a prendersi uno scudetto regalato così, fa
proprio tristezza, bisogna proprio essere una squadra triste.
M: [dogmatico, col dito puntato verso il basso] E invece no! Invece no!
Perché lo scudetto del Novantotto era nostro, ce l’avete fregato con gli
arbitri e l’epo, e allora noi adesso questo ce lo prendiamo e ce lo teniamo,
capito?
[…]
Ho detto che Davide non era proprio un mio amico,
e che per questo motivo per me è più facile ricordarmi gli ultimi anni che il
resto. Vero, ma è anche vero che quelle due chiacchierate all’anno mi
mancheranno. Su un sacco di cose, molte più di me, Davide era lucido e
informato. Peccato: il mio nonno paterno non potrà più parlarmi di com’era il
mondo negli anni Dieci, il mio nonno materno non potrà più descrivermi il campo
di prigionia inglese in cui l’avevano rinchiuso durante la seconda guerra
mondiale, e Davide non potrà più descrivermi il Tagikistan.
Per fortuna, delle cose veramente importanti
avevamo fatto in tempo a parlare.
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