martedì 10 dicembre 2013

16. Parzialmente nuvoloso con pareggio in casa


8 dicembre 2013: Inter-Parma 3-3

Fa freddo, il cielo è grigio, e l’Inter ha pareggiato. No – secondo logica, mi tocca invertire l’ordine dei fattori: l’Inter ha pareggiato, il cielo è grigio e fa anche freddo.

Oggi è una giornata grigia, a Udine. Ci sono due o tre gradi sopra lo zero. L’Inter ha pareggiato in casa. I friulani camminano con le mani piantate in tasca e gli occhi puntati a terra, come se avessero perso un decino e lo cercassero, più che per il decino in sé, per ripicca contro la vita e contro l’idea che i decini si perdono.

I miei studenti, alle otto e mezzo del mattino, sono asserragliati nel sonno. Tengono le braccia incrociate – uno sciopero involontario dell’apprendimento. E per inciso, l’Inter ha pareggiato in casa col Parma.

L’Inter ha pareggiato in casa col Parma – perdeva 1-0, e poi 2-1 per una papera del portiere. Poi aveva anche recuperato. Alle due del pomeriggio, ho davanti un’altra covata di studenti (più grandi, quelli della specialistica) e la prospettiva di correggere trentotto traduzioni in serata, perché poi gliele devo riconsegnare domattina. A un certo punto l’Inter stava anche 3-2, col Parma, ma ha ripreso gol quasi subito. Sono cose che capitano, in un processo di apprendimento.

L’Inter ha pareggiato, e la Juve è sopra di dodici punti, ma naturalmente questo è un anno di transizione, dobbiamo solo arrivare fra le prime tre, anzi fra le prime cinque, anzi, quello che conta è rivalutare la rosa, tutto sommato. Dopo questo preappello, mi rimane una lezione dalle quattro alle sei, e so che a quell’ora gli studenti mi guardano come chiedendosi: “perché questo bislacco animale si ostina a non estinguersi?” Io, di mio, li guardo con l’aria di uno che sa che Cambiasso, a pochi minuti dalla fine, poteva fare il gol del 4-3 di sinistro, al volo.

Chissà se riesco a finire di correggere per le dieci di sera? Magari mangio dopo aver finito, e poi vedo se c’è qualcosa di interessante su RaiStoria o su LaEffe. Che so, un programma sulla Grande Guerra o qualche altra catastrofe. Calcio no, perché oggi è lunedì, e poi l’Inter ha pareggiato. Che Cambiasso poi di solito li fa, quei gol lì.

Ieri sera, in treno, ho preparato messaggi per promuovere il disco nuovo e proporre concerti in giro. Li ho scritti in terza persona, con tono trionfalistico, dicendo che Moro & the Silent Revolution partivano da Forlì alla conquista del Regno Unito e poi del mondo, più o meno. Chissà se era credibile, il tono trionfalistico – sono pochissime le frasi che riescono credibili se ci metti dentro la città di Forlì. Una è “Forlì è una città grigia”. Grigia come un pareggio in casa a inizio dicembre con una squadra di metà classifica. Ma bisogna tenere presente che questi giocatori, pochi mesi fa, avevano perso tutta la fiducia in se stessi.

Forse me lo sentivo già in treno, che si pareggiava. Sarà meglio che riguardi bene quei messaggi trionfalistici, prima di spedirli.

Anche se stasera non so mica se ho tempo – devo correggere trentotto traduzioni. A parte questo, a parte l’ultima lezione che mi aspetta, non è mica male, questa giornata. Sì, l’Inter ha pareggiato, è grigio e devo lavorare, ma io non sono mica come certi altri amici che quando la loro squadra perde, o pareggia in casa con una squadra di metà classifica – che è un po’ la stessa cosa, a pensarci bene, specie da quando la vittoria vale tre punti – si lasciano andare, smadonnano, insultano l’arbitro. Io so vedere le cose in prospettiva. Sì, forse c’era un rigore, o forse non c’era però ogni tanto i rigori che non ci sono agli altri li danno – lo dico così, per completezza di informazione – ma probabilmente non sarebbe cambiato niente. Dopotutto si stava sul 2-1 per loro, e avevamo anche ribaltato il risultato, prima di prendere un altro gol da cretini nel giro di quattro minuti.

(Certo, prendere qualche gol da cretini ci sta, in un anno di transizione e di apprendimento.)

Mancano ancora sei-sette ore a quando mi potrò riposare, e forse si mette a piovere. Mio padre, quando ero bambino, era di cattivo umore tutte le volte che il Milan perdeva – e il Milan perdeva spesso, quando ero bambino. Ricordo le finali di Mitropa Cup guardate con lui. E ricordo che la mia nonna materna, per giustificare il suo comportamento, diceva ah, cosa vuoi, ha perso il Milan, con questo Milan, e sospirava, come parlasse di uno che ha una brutta malattia. E anch’io, da bambino, la prendevo male. Ricordo quell’Inter-Austria Vienna di Coppa Uefa, per esempio – bastava un 1-0 per passare il turno, e invece niente. Io dormivo dai miei nonni materni, e passai il resto della nottata ad alterare mentalmente le azioni per far segnare Altobelli e compagnia. Mio nonno, buonanima, sosteneva perfino che mi ero alzato a sedere sul letto – dormivo con lui, chissà perché – e che avevo urlato “Scatta sulla fascia – gol!”

Per fortuna non sono più fatto così, perché altrimenti oggi avrei motivo di essere di pessimo umore – è il terzo pareggio di fila, dopotutto, in tre partite con squadre di mezza o bassa classifica. Gli amici romanisti, per esempio – loro si arrabbiano tantissimo. Li vedo su facebook. E stamattina c’era un amico interista che chiedeva già le dimissioni di Mazzarri – io mi sono trattenuto, ma avrei potuto fargli presente che è presto, che bisogna sempre essere equilibrati, che Mazzarri ha fatto sempre bene in tutte le squadre che ha allenato, e che i conti si fanno alla fine. E alla fine è pur sempre importante non perdere, e si poteva anche perdere, ieri sera. Certo, si poteva anche vincere – bastava avere un paio di scimmie antropomorfe di media intelligenza in difesa, o che Cambiasso facesse quel gol, perché di solito lui quei gol li fa, non so se l’ho detto.

È quasi ora di uscire di qui con il mio fascio di compiti sottobraccio, e di avviarmi verso l’aula dell’ultima lezione. L’aula è in un ex convitto – non è il posto in cui faccio lezione di solito – e fa un effetto un po’ desolante. Ci si aspetta di veder arrivare due o tre suore tarchiate con il pentolone di zuppa di cavoli. Oggi due o tre studenti devono fare i loro interventi in aula, e una ventina di minuti andrà via così: mentre li ascolto dovrò sforzarmi, per evitare di visualizzare come sarebbe andata se sull’azione dello 0-1 Juan avesse capito un attimo prima il passaggio filtrante telefonato di Cassano, o di Sansone, o di chi diavolo era.

(Muoia con tutti i Filistei, comunque.)

Fuori, alle quattro del pomeriggio, fa un freddo cane e sembra già notte. In giro a Udine c’è già gente che beve senza gioia, da sola. Mi guardano con aria di sfida, come a dire: “Sì, noi siamo uomini tristi, ma tu hai pareggiato in casa col Parma”. Naturalmente, c’è una remota possibilità che non lo stiano veramente pensando.

Io, in ogni caso, non li vedo già più, e non vedo neanche i miei studenti, anche se li ascolto. Come al solito sto pensando alla secessione, a un mondo abitato solo da interisti e fatto a misura di interisti – volendo possono entrare anche i torinisti, una volta ogni tanto e per inviti. Un mondo in cui il lunedì parliamo solo dell’Inter, e non importa se l’Inter ha pareggiato, perché in quel mondo le altre squadre, comunque, non fanno punti. Il peggio che può capitare è che il vantaggio dell’Inter sulle altre non aumenti. E tutte le domeniche, e un mercoledì sì e uno no, Mourinho salta in campo agitando le braccia come un bambino di sei anni, Nicolino Berti spacca le traverse a colpi di testa, e il Becca sbaglia rigori su rigori ma gliene danno sempre un altro.

Quando ero piccolo, di solito, in questo periodo grigio e freddo il campionato era già scritto. L’Inter era appena uscita dalle coppe o stava per uscire. Ma per fortuna, quest’anno, nelle coppe non ci siamo nemmeno entrati. E per fortuna io non me la prendo più come una volta.

Fa freddo, il cielo è grigio, e l’Inter ha pareggiato.


15. Il rospo del lavoro e l’urlo della tribù

14 settembre 2013: Inter-Juventus 1-1

In una poesia scritta all’età di trentadue anni da Philip Larkin – poeta inglese fintamente semplice a cui torno sempre più spesso – il lavoro viene paragonato a un rospo che ti sta addosso e ti schiaccia. Perché, si chiede la persona poetica di “Toads”, dovrei permettere a quella brutta bestia di starsene seduto sulla mia vita?

Why should I let the toad work
Squat on my life?

Il bello delle poesie è che ci si mette poco a rileggerle, e a rileggerle si spostano sempre, di qualche centimetro o di parecchi chilometri. Si spostano perché quella parola, quella frase, quel verso, li avevamo letti in un modo e non avevamo pensato a quell’altro. Si spostano perché la seconda o la terza volta notiamo una rima che lì per lì ci era sfuggita, e che tiene insieme due cose che nella vita e nella prosa normali insieme non stanno. Si spostano, soprattutto, perché quando le rileggiamo siamo cambiati noi: siamo passati dalla mattina alla sera, dal sole alla pioggia, dalla solitudine del nostro letto di ragazzi a una famiglia con figli, dall’eterna giovinezza alla coscienza della morte, dai ventotto ai sessantaquattro anni.

Io, quando ho letto per la prima volta “Toads”, avevo intorno ai ventotto anni, e nessuna intenzione di farmi schiacciare dal rospo del lavoro. La temevo molto, quella gran brutta bestia, nelle stesse forme descritte da Larkin – la routine dalle nove alle cinque, timbrare il cartellino sei giorni su sette – ma finché non me lo fossi ritrovato sul collo, avevo intenzione di correre. Volevo entrare a lavorare all’università, che era la mia idea di posto in cui potevi fare cose che ti piacevano con i tempi che ti garbavano. Cinque anni dopo, grazie a una combinazione di un po’ di abilità e molta, molta fortuna, sarei riuscito a entrarci. Dunque, non c’era più nessun rischio che quella brutta bestia mi trasformasse in un pallido automa degli schedari e delle partite doppie.

Mi sono ritrovato a pensare a “Toads” la scorsa settimana, venerdì 13 settembre, mentre andavo a un convegno dell’associazione nazionale della mia materia. Il convegno si teneva in una città medio-grande del centro-nord, e io, dopo aver preso un qualche treno frecciamarrone la mattina presto, camminavo contento fra grandi palazzi bagnati di sole. Ero consapevole e stupito della mia contentezza, perché mi rendevo conto che era dovuta – ancora più che al sole e alla pietra imbiondita dei palazzi antichi – al fatto che stavo andando a un convegno dell’associazione nazionale della mia materia. Un attimo dopo mi è venuto in mente Larkin, e qualche minuto più tardi mi è venuto un brivido.

Nel mio, nel nostro lavoro da aironi – volendo, possiamo permetterci di studiare ancora a sessantaquattro anni – ci sono un po’ di incombenze che a me hanno sempre fatto l’effetto dei rospi. Ci sono le riunioni, le commissioni e le cariche, e in generale tutte le cose che hanno a che fare con l’amministrazione e la politica accademica: certi tipi di persone prosperano in questo genere di stagni, ma a me sembra di affogare, e ci sguazzo solo nella misura in cui non se ne può proprio fare a meno. Poi ci sono i convegni, e soprattutto quelli in cui non si discute di un argomento specifico – i grandi scatoloni in cui devono stare tutti, perché ci si possa ritrovare, misurare, adulare, ridimensionare, arruolare e combattere l’un l’altro: stagni in cui ho sguazzato spesso, come tutti i miei colleghi, imparando a girare alla larga dagli anfibi più grossi e cattivi.

Ora, il convegno verso cui ero diretto era proprio il genere di occasione in cui ambiti e argomenti spaziano dall’invenzione della stampa al fumetto nell’era digitale. Era anche il genere di occasione in cui si ritrova l’universo mondo, e io – mi rendevo conto con sconcerto – ero contento di vedere tutti i miei colleghi. Tutti. Ero contento di vedere l’amica fraterna che sta andando in pensione – e questo era abbastanza normale. Ero contento di vedere tutte quelle persone con cui ogni tanto ci può essere competizione, ma che ti vanno comunque a genio – e fin qui, niente di strano. Ma ero anche contento di vedere quelli che normalmente mi mettono in soggezione o in imbarazzo – e questa era già una piccola novità. Novità ancor più grande, ero contento di vedere anche i grossi anfibi cannibali e i bitorzoluti insetti palustri (spesso i secondi diventano simbionti dei primi) che guadano le acque dei convegni nazionali con sorrisi mostruosi. Ero zeppo di inspiegabile benevolenza universale.

La portata di questa benevolenza è poi molto diminuita, nel corso della giornata e nello stillicidio delle strette di mano. Ma per me il problema rimaneva, e ci rimuginavo su nel regionale lento del ritorno: cosa mi stava succedendo? Mi stavo rincoglionendo? O gli orizzonti della mia vita si erano tanto ristretti che ormai anche una gita di lavoro di centoventi chilometri mi sembrava un’eccitante spedizione artica?

Allora ho cominciato a pensare a tutte le cose che – nel mio inventario ormai da aggiornare – mi distraggono dall’incombere del lavoro. La musica, in primo luogo. A sedici anni, con le dita ancora doloranti per la recente fatica di spingerci dentro dei fili di ferro, ricordo di aver pensato: questa cosa è bellissima. Posso suonare tutte le canzoni del mondo, e finché avrò una chitarra in casa non sarò mai solo. Ora però ho ricominciato a suonare un po’ più sul serio, a fare dei dischi, e la musica è diventata anche: 1) scartare tutte le canzoni che mi verrebbe in mente di scrivere ma non vanno bene per me o per chi le ascolta; 2) esercitarmi per non sbagliare le parti che devo fare dal vivo. E poi, sempre più in basso nella scala del divertimento: 3) chiamare o scrivere a questo o quello per ottenere contratti, concerti, recensioni. E in generale: 4) pensare alla prossima mossa per la conquista del mondo.

Andando avanti nel mio inventario, la seconda cosa sono i libri, i dischi, e tutte le forme di artefatto che contengono parole. Anche qui, tanti bei ricordi: a quindici anni ho pensato che avrei letto per tutta la vita libri come Il signore degli anelli, e a trenta ho scoperto una trilogia di romanzi scozzesi, A Scots Quair di Lewis Grassic Gibbon, che fino alle ultime dieci pagine mi hanno riempito di gioia di vivere al solo pensiero che ce n’era ancora un po’. Ma di nuovo, la mia deformazione professionale – pensate al valore letterale della metafora, come se una forza gravitazionale mi piegasse sui libri – ha tolto un po’ di lustro alle copertine patinate. Se leggo un romanzo, un angolo del mio cervello pensa all’analisi linguistica che se ne potrebbe fare. Se trovo un bel romanzo a fumetti nuovo, se risento una vecchia canzone di Kate Bush, mi viene in mente un utensile analitico che si chiama stilistica multimodale, e che mi permetterebbe di fare a minuscoli pezzettini ogni parola, nota e disegno. Perché non ci fai su un libro, mi sussurra il demone che vive in quell’angolo di cervello. Non l’ha ancora fatto nessuno – magari è la volta che te lo pubblica la Oxford University Press.

E allora cosa rimane di assolutamente scervellato, decerebrato, privo di ambizione? Forse lo sport – soprattutto il calcio giocato e guardato. Ma quanto al primo, riesco a giocare raramente – ho troppo da lavorare, da suonare, da studiare e da scrivere. Mentre il calcio guardato – che fra i venti e i trent’anni avevo lasciato perdere quasi del tutto, occupato com’ero a cercare femmine (notate bene: cercare) e a ingrassarmi di nozioni – è effettivamente tornato centrale nella mia vita. O per meglio dire, è tornato marginale ma pervasivo, come una lieve irritazione cutanea alla pianta di un piede. E ancora una volta, la similitudine non è gratuita: come vi sarà balenato alla mente se state leggendo questa rubrica, sono interista. Per me il calcio guardato (o seguito sul televideo, nel mio caso) è soprattutto sofferenza.

E qui c’entra la giornata di sabato scorso, il 14 settembre del 2013. Io e la Paola, guardandoci in faccia, ci eravamo resi conto che era l’ultimo fine settimana prima del diluvio. Da lì in poi, una fiumana di lezioni, musica, scrittura varia e figli ci avrebbe investiti entrambi, sbattendoci via in direzioni diverse. Allora ci siamo detti: via da tutto, troviamo una destinazione per i figli e un’altra per noi. E io ho pensato: al diavolo Inter-Juve, questo sabato andiamo a fare un giro a Bologna. Abbiamo passato il pomeriggio nelle vie del centro, la prima serata in un posto dove ci piace mangiare e la seconda serata in un cinema dove, abitando in provincia, non possiamo mai andare. Nel cinema, toccando un ginocchio alla Paola, ho avuto quella sensazione di lusso che nessun ristorante di lusso mi ha mai dato – anche perché in questo caso non c’era il pensiero del conto a sussurrarmi all’orecchio pensieri di morte. Il film che abbiamo visto, per una volta senza gli impostatissimi doppiatori italiani, era splendido: Mood Indigo di Michel Gondry. Ogni sequenza era una sorpresa, nessuna immagine era plausibile in termini di vita reale, e tutto il film ti diceva cose sulla vita reale che si possono dire, in quel modo, solo al cinema. Io guardavo, ogni tanto toccavo un ginocchio destro e cercavo di allontanare i pensieri sinistri. Cercavo di allontanare tutti i pensieri, a dire il vero, anche se qualcosa di molto piccolo rimaneva, nel solito angolo di cervello.

Un paio d’ore prima, passando a piedi da via del Piombo, io e la Paola avevamo sentito un urlo stranissimo. Era un grido inarticolato, di gioia ma non di contentezza, di soddisfazione partorita da un’estenuata sofferenza. Era una voce femminile, ma talmente stravolta da farsi quasi asessuata. Io avevo sentito l’urlo, e il mio orologio calcistico interno aveva subito registrato il momento: erano le sette e venti, cioè il settantesimo minuto di Inter-Juve. Avevo deciso di non seguire e non sapere, ma una parte di me sapeva e seguiva. Quella parte di me aveva riconosciuto l’urlo della tribù: la voce stravolta era una voce interista, e il grido di gioia sofferente annunciava un (nostro) gol. Dunque eravamo passati in vantaggio, verso la metà del secondo tempo. Da bravo interista, mi sono impedito perfino di provare una moderata soddisfazione: da lì al novantesimo, quegli altri lì potevano facilmente pareggiare e vincere – e in effetti hanno pareggiato quasi subito e rischiato di vincere alla fine, ma io questo l’ho scoperto dopo.

Al cinema, l’eco di quel grido risuonava ancora, per quanto flebile. Il demone che mi abita nel cervello cercava di suggerirmi possibilità di studio multimodale sul cinema, e il suo fratello gemello mi diceva: pensa che meraviglia, se ti chiedessero di fare la colonna sonora di un film così – devi trovare un regista geniale in ascesa e offrirgli i tuoi servigi. Io, sorridendo, con il tatto, l’udito e la vista occupati, facevo finta di non sentire. Non ora, dicevo. Domani faccio tutto quello che volete – scrivo dieci studi multimodali, contatto un milione di registi – ma stasera, niente.

Otto anni dopo “Toads”, Larkin, quarantenne, torna sull’argomento con “Toads Revisited”. Dopo aver passato in rassegna le alternative alla sua vita anfibia e ripetitiva, e avendole trovate molto poco attraenti e ancor più noiose, la persona del poeta si rivolge direttamente al rospo. Ma sì – gli dice nel distico rimato finale – buon vecchio rospo. Dammi il braccio, sorreggimi sulla via del cimitero.

Give me your arm, old Toad;
Help me down Cemetery Road.


giovedì 12 settembre 2013

14. Che confusione


1 maggio 1983: Juventus-Inter 3-3 (0-2 a tavolino)



Sono confuso. Lo so che è un cliché – che io stesso sto diventando un cliché – ma dopo i quarant’anni non sono più sicuro di nulla. Questo luogo comune l’ha spiegato bene Matt Johnson-The The, uno dei miei cantautori preferiti, in una canzone del 1993 – quindi non c’è bisogno che lo rielabori io.

The more I see
the less I know
about all the things I thought were wrong or right
and carved in stone
so don’t ask me about war, religion or God
love, sex or death, because
Everybody knows what’s going wrong with the world
I don’t even know what’s going on in myself

Il 2012 mi ha portato il quarantesimo compleanno, e il 2013, come per infierire, mi ha regalato tutta una serie di nuove insicurezze. Fino a qualche anno fa, ero convinto di capire almeno una serie di cose basilari sull’andamento del mondo: in Italia governava la destra, e la destra ce l’aveva con me e quelli come me; alla Casa Bianca c’erano i repubblicani, e i repubblicani erano pronti a fare la guerra con qualunque pretesto, in nome del petrolio e per conto della lobby delle armi; dire “alla Casa Bianca” faceva figo, così come sapere la differenza fra democratici e repubblicani, laburisti e tories (e dire “tories” faceva molto cultura). Vero che in Inghilterra c’era Blair, il che minava un po’ le nostre certezze, ma Ken Loach e altri ci avevano spiegato che Blair era un discepolo della Thatcher travestito da socialista, e quindi anche Blair, nelle conversazioni di un certo livello, non costituiva un problema.

Ora, nelle conversazioni di un certo livello, non so più che cosa dire, e i miei discorsi sono così infarciti di forse, credo e non so che mi sento come Forlani nel ’93. Mi sembra anche di avere la bavetta all’angolo della bocca. Prendiamo la politica interna: per diciotto anni è stato facilissimo sapere per chi votare e chi sostenere. A rappresentare una parte politica c’era quasi sempre un essere umano vanitoso, discutibile, untuoso e fallace: ma siccome dall’altra parte c’era Silvio Berlusconi, si votava l’essere umano vanitoso ecc. con una certa leggerezza d’animo. In tutte le discussioni postprandiali, l’arma finale era la frase: sì, anche noi abbiamo dei delinquenti, ma i vostri sono molto peggio. Sentendo parlare certi esponenti del PC/DS/PD, poteva sorgere il dubbio che fossero dei babbei analfabeti: ma anche per questo c’era un rimedio facile, che consisteva nel premersi entrambe le mani sulle orecchie e canticchiare “La fisarmonica” fino a fine intervista. Si viveva anche nella meravigliosa illusione che, dopo la caduta del muro, i democristiani cattivi si fossero buttati a destra, e quelli buoni a sinistra – quest’ultimo essendo, per esempio, il caso di De Mita.

(Nel tempo che impiegate a leggere questo breve paragrafo parentetico, immaginatemi mentre canto “La fisarmonica” con le mani premute sulle orecchie)

Quanto alla politica estera: se c’era un Bush al governo, si sapeva che doveva scatenare qualche guerra, con qualsiasi pretesto – particolarmente esilarante fu quello della seconda guerra irachena – per compiacere le lobby del petrolio e delle armi, e per mantenere il consenso interno. Se c’era Clinton, si sapeva che doveva scatenare qualche guerra, con qualsiasi pretesto, perché costretto dalle lobby del petrolio e delle armi, per mantenere il consenso interno, e per far vedere che anche i democratici non erano mica delle mammolette. Insomma, c’erano guerre inutili e ingiustificate e guerre inutili e giustificate, e per ognuna di queste c’era la giusta reazione – dallo scotimento di capo con aria indignata e labbra lievemente protruse allo scotimento di capo con aria contrita e labbra lievemente schiuse. Quanto a Blair, si sapeva che qualunque cosa facesse era sbagliata, il che aumentava di molto le possibilità di vederci giusto e non fare brutta figura in società. Infine, in casi spinosi come quello dell’ex Jugoslavia, c’erano due partiti di opinione rispettabili ai quali iscriversi: i realisti, convinti che valesse la pena massacrare della gente a malincuore per evitare massacri peggiori; e gli idealisti, convinti che fosse necessario lasciare ad ogni popolo, o crogiolo di popoli, il diritto inalienabile a massacrare le proprie minoranze.

Se questa descrizione dello stato delle cose vi sembra semplicistica, è perché lo è. Perché in realtà non è una descrizione dello stato delle cose, ma dello stato del mio cervello rispetto allo stato delle cose. Finché potevo intrupparmi in qualche gruppo con la ragionevole certezza che gli altri fossero peggio, finché potevo assumere un’opinione altrui o sorvolare tutte le opinioni senza posarmi su nessuna, con l’aria del vecchio volatile che conosce tutti i rami, li sa traballanti e preferisce posarsi in cima all’albero, potevo ragionare male e compiacermi della mia sagacia. Adesso che sono un po’ più vecchio e ne so un po’ di più, continuo a ragionare male, ma me ne rendo perfettamente conto. D’accordo, sono tornato a The The. L’avevo detto dall’inizio, che non sarei stato in grado di elaborare.

Il mondo, ora, mi sembra in uno stato di totale confusione – e allo stesso tempo, mi rendo conto (ma anche qui: in modo confuso, non lampante) che sono io stesso a produrre questa confusione. Che ci dev’essere un modo rapido e immediato per trovare il senso delle cose, ma il mio cervello ha sviluppato una qualche forma di cecità ideologica che gli rende impossibile vederlo. Per somma beffa, questa cecità non è nemmeno roba mia – essere stupidi in prima persona, e non per conto terzi, sarebbe già una qualche consolazione – ma di un’intera fascia della popolazione, un segno dell’età o una conseguenza delle false posizioni in cui ci siamo fatti sorprendere in un momento decisivo del cui passaggio non ci siamo accorti. Come se uno avesse aperto la porta del bagno, senza fare rumore, mentre ci facevamo un bidè girati verso il rubinetto: fuori dal bagno, tutti hanno preso a guardarci sogghignando, ma noi sul bidè eravamo girati, non abbiamo sentito nulla e non sappiamo nemmeno di esserci resi ridicoli.

Oggi, quando qualcuno cerca di coinvolgermi in discorsi impegnativi, non posso fare altro che raccontare nel dettaglio il mio stato confusionale. In Italia non so più chi sostenere, perché adesso i buoni sono alleati con i cattivi, e ci sono dei buoni nuovi di cui ancora non mi fido perché non capisco se sono contro i miei interessi, e mi sembra che siano guidati da un fanatico dai modi fascisti: speravo tanto che i vecchi buoni si alleassero con i nuovi buoni – il che mi avrebbe tranquillizzato sul conto di entrambi – ma poi i nuovi buoni (credo) hanno detto che i vecchi buoni erano in realtà alleati segretamente coi cattivi e coi poteri forti che li sostengono, e i vecchi buoni (se non ho capito male) hanno detto che i nuovi buoni erano inaffidabili e somigliavano tanto a dei vecchi cattivi di qualche decennio fa, e allora ci sono rimasto male e mi sono un po’ perso. Quanto alle politica internazionale, prendiamo la Siria: qualche tempo fa si è cominciato a dire che Assad stava massacrando i suoi cittadini-sudditi, ma allo stesso tempo c’era chi diceva che in realtà i poteri forti della regione e forse anche gli occidentali gli stavano organizzando un’opposizione interna perché era troppo moderno e democratico, e perciò andava contro i loro interessi; a quel punto forse Assad ha cominciato a massacrare questa opposizione interna, che poteva essere foraggiata come no da potenze estere, e il cui massacro poteva essere come no stato inventato/esagerato da chi aveva interesse a mettere in cattiva luce il tirannico o troppo democratico Assad; e ora Barack Obama, un democratico che è anche il primo presidente americano non caucasico della storia, e che manda droni a uccidere persone denunciate come terroristi in cambio di denaro da altre persone che vivono in zone estremamente povere, vorrebbe scatenare una guerra di cui il governo conservatore britannico, che ha vessato i suoi cittadini come nessun altro governo del dopoguerra, non è per niente convinto. Della situazione dei paesi come l’Egitto, poi, non voglio nemmeno cominciare a parlare: un feroce regime militare viene rovesciato dal popolo e sostituito da un feroce protoregime religioso che poi i militari cercano di rovesciare – Dio mio, Dio mio, perché non mi mandi un abstract di 100 parole?

In tutto questo, tanto per l’Italia quanto per il mondo, ho la sensazione che dovrei passare la vita a studiare e documentarmi per venirne a capo. Dovrei smettere di fare lezione, di studiare, di scrivere roba accademica, di suonare, di portare avanti i miei blog e di guardare le pagine di sport del televideo, probabilmente per giungere alla conclusione che non è possibile giungere a una conclusione. Cosa deve fare un povero cristo per fare bella figura in società – rovinarsi la vita?

Ora, dal momento che non posso più parlare con sicumera di musica perché suono e non è il caso che offenda nessuno, e non posso più parlare con sicumera di letteratura perché sapendo molte cose so (scusa, Socrate) di non saperne molte di più (come faccio a parlare male di Bret Easton Ellis se avendo il sospetto che mi faccia schifo non l’ho mai letto?), capite bene come il calcio diventi per me l’unico argomento di conversazione accettabile. Quando parlo di calcio, ho la ragionevole certezza di saperne di più della maggior parte dei miei interlocutori – a parte mio cugino – o comunque di poter portare alla luce qualche aspetto poco noto dell’argomento. Quando parlo di calcio, so con certezza chi sono i cattivi, perché per semplicità me li hanno contrassegnati con delle strisce bianche e nere. Quando parlo di calcio so esattamente cosa voglio, che è vincere 2-0 (non di più – mai sfidare la hybris) Inter-Juve di sabato prossimo, con gol di Alvarez in discesa solitaria e di Nagatomo di labbra. So anche che darei quasi qualsiasi cosa per questo risultato – probabilmente anche la Siria, la Kamchatka, l’Europa, l’Oceania e ventiquattro territori – e che alla fine mi accontenterei anche di vincere 2-0 a tavolino, come quando i tifosi della Juve, stando alle cronache, tirarono un mattone sulla tempia a Giampiero Marini.

Certo, è poi vero che la Juve degli ultimi anni ha vinto regolarmente, e che anzi Galliani è diventato un Moggi in sedicesimo e adesso i rigori facili li danno al Milan. Ed è vero che l’Inter forse la compra un indonesiano di cui non sappiamo quasi nulla, e che per creare ulteriore confusione si chiama quasi uguale a una piazza in cui sono successe cose che non ho ancora capito se fossero buone o cattive. E anche Moratti alla fine è un petroliere, e non mi ricordo più chi, ma era uno attendibile, mi diceva che alla Saras ci si lasciava la pelle. E probabilmente Giampiero Marini aveva un po’ esagerato, con quel mattone, e già una dozzina di anni prima l’Inter aveva rimesso in piedi un ottavo di finale di coppa campioni grazie a una lattina di coca cola e a un’imbarazzante sceneggiata di Boninsegna.

(Nel tempo che impiegate a leggere questo breve paragrafo parentetico, immaginatemi mentre canto “La fisarmonica” con le mani premute sulle orecchie)

Come dicevo, sabato c’è Inter-Juve. Io ci spero. Per tutto il resto, fate un po’ voi.


mercoledì 6 febbraio 2013

13. L’ospite e il Senzacolori

13. L'ospite e il Senzacolori

3 febbraio 2013: Siena-Inter 3-1 (Milan-Udinese 2-1)


È un po’ che non scrivo una puntata di questa rubrica, e temo che vi siate distratti, o dimenticati di come stanno le cose. Che in mia assenza, privi delle mie indicazioni cosmogoniche dettate da un’intima conoscenza della sfiga, vi siate convinti che tutto capita casualmente, senza un disegno preciso. Per il vostro bene, perché le trame del Maligno non vi colgano alla sprovvista, sarà bene che ve lo ricordi: non è così. Tutto ha un significato, anche se niente ha senso.

Riassumendo: l’Oscuro Signore esiste, ed è bianconero. Se non ve ne siete mai accorti, siete degli ingenui: l’assenza di colori avrebbe dovuto mettervi in guardia. Il Senzacolori ha schiavizzato intere orde di individui ingenui, mal consigliati, o semplicemente convinti dalla promessa di una vittoria facile. I nemici del Senzacolori sono soprattutto i neroazzurri, e poi tutti gli altri. Il suo obiettivo non è la distruzione del nemico – anzi: a differenza dei più sanguinari dittatori del ventesimo secolo, il Senzacolori ha capito che i neroazzurri e gli altri colorati bisogna tenerli in vita, perché non c’è signore del male senza forze del bene oppresse e perché, com’è evidente, si diverte da matti a tormentarli. Una vittima morta non è più una vittima, dal punto di vista del torturatore. Come si è visto fin dall’inizio di questa rubrica (17 febbraio 2012: Inter-Bologna 0-3), il Senzacolori a volte si serve di colorati per punire altri colorati. Fra tutti i colorati, ama sopra ogni cosa torturare i nerazzurri; e quando non può farlo di persona, ama sopra ogni cosa servirsi dei rossoneri.

Se lo schema vi sembra troppo perfetto e sinistro, vi racconterò una cosa che mi è appena successa, e che lo illustra alla perfezione. Da un po’ di tempo, un amico di Varese ed io ci diciamo al telefono che dobbiamo proprio vederci. Questo amico è un ex editore per cui traducevo qualche anno fa, e adesso scrive recensioni per il supplemento di un quotidiano. È una persona piena di idee e di progetti, nei quali ogni tanto cerca di coinvolgermi. Ultimamente, al telefono, ci siamo detti che non ha più senso scrivere narrativa, e che bisognerebbe trovare il modo di lavorare per la televisione. È lì che ci sono i soldi, abbiamo convenuto. Perché non ci troviamo per buttare giù qualcosa, ha detto lui? Io ho un’idea di cosa si dovrebbe scrivere, e magari recupero qualche contatto indiretto. È un po’ che volevo parlartene, ha aggiunto, ma non osavo. Ma dai, ho detto io, perché non osavi? Dobbiamo provarci, abbiamo concluso. Vengo giù a trovarti un fine settimana e buttiamo giù qualcosa, ha detto lui.

Con mio grande stupore, solo un paio di settimane dopo questa conversazione, l’amico di Varese è davvero venuto giù a trovarmi, e fra sabato e domenica abbiamo anche buttato giù qualcosa. È una storia un po’ fantasy e un po’ fantascientifica, ma di ambientazione contemporanea. Abbiamo preso un po’ spunto da tutta questa roba sui vampiri, solo che qui al posto dei vampiri ci sono gli elfi, che sono immortali, supponenti e geneticamente perfetti – un po’ come Antonio Conte, a parte la prima e l’ultima. Non credo che qualche produttore italiano vorrà mai sentirne parlare, anche ammesso che si riesca a parlare con qualche produttore italiano: ma io sono un pessimista disfattista, mentre il mio amico di Varese è un ottimista sicuro del fatto suo. Ad ogni modo, il progetto di serie televisiva non c’entra quasi niente con quel che voglio raccontare. Il punto vero è un altro, ed ha a che fare con il campionato di calcio e con il calciomercato.

Ora, il fine settimana scelto dall’amico di Varese – fra quelli in cui io e la Paola siamo disponibili – è quello di domenica 3 febbraio 2013. La data non dirà nulla ai non iniziati, ma per gli schiavi e i nemici del Senzacolori è decisiva. Il 3 febbraio c’è una giornata di campionato, e soprattutto è appena finito il calciomercato. Durante questa sessione invernale di mercato, l’unico acquisto clamoroso, di quelli che finiscono sulle prime pagine dei giornali non sportivi, è stato quello di Balotelli. Il Milan, nella persona dell’astuto mercante di vacche Adriano Galliani, ha comprato Mario Balotelli dal Manchester City per 24 milioni pagabili in euro ma anche in figurine doppie dell’album Panini, a rate mensili spalmate su un periodo di trecento anni. Mario Balotelli, l’anagramma del cui cognome è Altobelli, è un ex giocatore dell’Inter, venduto due anni prima al Manchester City per disperazione. Balotelli ha un talento enorme e un’incapacità congenita di impegnarsi a fondo nelle cose. Due anni prima, era arrivato a buttare la maglia dell’Inter per terra alla fine di una partita. Mario Balotelli, sia detto per inciso, è cresciuto a Brescia ed è milanista. Quando era all’Inter, andava a fare allenamento con i calzini rossoneri, e Materazzi, fine intellettuale par suo, glieli tagliava.

Nella stessa finestra di mercato, l’Inter non ha fatto acquisti clamorosi, da prima pagina, ma ha comprato diversi giocatori apparentemente utili alla causa, in modo oculato. Dopo l’acquisto di Balotelli, Moratti, il presidente dell’Inter, ha ironizzato sul fatto che il giocatore serviva soprattutto all’ex Presidente del Consiglio in vista delle elezioni – il che è senz’altro vero. I tifosi interisti, forti dell’acquisto di due o tre cavalli di ritorno e di un ragazzino croato con l’aura da fenomeno, a un certo punto hanno anche pensato che la loro società fosse più matura, meno legata agli umori del momento e della piazza. Loro comprano per andare sui giornali e prendere voti dagli stupidi, si sono detti, noi per la gloria presente e futura. Qualche tifoso interista forse sapeva di mentire a se stesso, o annusava la fregatura nell’aria. Io, per dire, ho un pessimo olfatto, ma sentivo odore di bruciato, e sabato ero già tesissimo.

Come detto, era il sabato in cui doveva arrivare l’amico di Varese. L’amico è arrivato, si è mangiato e bevuto, e il pomeriggio si è lavorato su questa serie televisiva. Il giorno dopo, siamo andati avanti con lo stesso schema: ma il pomeriggio, io ogni tanto mi assentavo dalla sessione di scrittura televisiva per controllare i risultati delle partite.

Di qui in avanti il racconto si fa rapido e rovinoso: l’Inter gioca col Siena ultimo in classifica. Facile, in teoria, come mi fa notare l’amico di Varese (‘Giocate a Siena? Buon per voi, allora’): ma io so per esperienza che è proprio in queste giornate in cui tutto sembra facile che le cose possono andare a rotoli. Puntualmente, le cose fanno proprio così. A fine primo tempo, il Siena vince 2-1, e le cronache su internet che leggo nelle pause della scrittura parlano di un’Inter in balia del contropiede avversario. Nel secondo tempo, proprio in un momento in cui vado a controllare – perché Cecio, che sta usando il pc per giocare, mi chiede aiuto, e io ne approfitto per aprire un’altra finestra – l’arbitro dà un rigore al Siena ed espelle un difensore dell’Inter. Buonanotte. Finisce 3-1, e l’amico mi dice – dopo aver dato un’occhiata su internet – che Stramaccioni, l’allenatore dell’Inter, è stato visto quasi in lacrime.

Bene. Per fortuna la Lazio, che è terza in classifica e ultima qualificata provvisoria alla coppa dei campioni, tre punti più su dell’Inter, ha perso anche lei. La sera però gioca il Milan con l’Udinese, e il Milan, proprio in questo fine settimana in cui viene a trovarmi l’amico di Varese, è quinto, esattamente a tre punti di distanza dall’Inter. Dopo essere stato anche una dozzina di punti indietro, è a tre punti, e cioè a una sola vittoria di distanza. Il Milan gioca con l’Udinese, e Balotelli, a quanto pare, comincerà la partita in panchina.

La sera siamo tutti in casa, la Paola, Cecio, io e l’amico di Varese. Io sto lavando i piatti, e l’amico di Varese mi aggiorna ogni tanto sulla partita. Ha segnato Balotelli, mi fa a un certo punto. Anzi: ‘Ha segnato Balo,’ dice. Ma come, non era in panchina? Faccio io. No, si è fatto male Pazzini nel riscaldamento e l’hanno messo subito, fa lui. Ah, faccio io. Nel secondo tempo, però, l’Udinese per fortuna pareggia. Io, dopo aver messo a letto Cecio e sistemato quel che c’era da sistemare, vado in camera a dare un’occhiata alla cronaca della partita in rete. Sono le dieci e trentasei, e quindi la partita dovrebbe essere finita. Ma non lo è, a quanto pare: Milan-Udinese 1-1 live, dice il sito. Ma come, giocano ancora? Apro il collegamento, e la prima frase di cronaca che vedo è: dal replay, il rigore sembra proprio non esserci. Io non ho ancora capito che il rigore è per il Milan, ma lo so già. So chi lo tirerà, e so che non lo sbaglierà – nonostante il suo cognome sia l’anagramma di quello di un attaccante interista fra i più grandi scialacquatori di rigori della storia. E infatti Balotelli, l’acquisto elettorale, tira il rigore e non sbaglia. Milan-Udinese 2-1.

Lo schema dovrebbe essere già chiaro, ma lo rendo esplicito per i meno informati. Nel pomeriggio, l’Inter perde 2-1 con l’ultima in classifica. La sera, il Milan vince 2-1 con l’Udinese. Proprio il fine settimana in cui viene a trovarmi l’amico di Varese, e proprio il fine settimana dopo la fine del calciomercato invernale, il Milan si trova a una vittoria di distanza dall’Inter. Il Milan vince con due gol di un ex giocatore dell’Inter che è tifoso milanista, e che è stato comprato proprio pochi giorni prima – e uno di questi due gol è un rigore inesistente tirato all’ultimo minuto disponibile. Con quei due gol, il Milan raggiunge l’Inter al quarto posto in classifica. Ah, i colori sociali sia del Siena e dell’Udinese sono il bianco e il nero.

Ma il dettaglio diabolico, quello per cui mi viene quasi voglia di complimentarmi con l’Oscuro Signore Senzacolori, è questo: l’amico di Varese è milanista. Qualche giorno prima, aveva concluso il messaggio e-mail in cui mi confermava il suo arrivo con queste parole:

 ‘Forza Balo!’

 Sì, lo so che ho letto troppi romanzi fantasy da ragazzino, e i romanzi fantasy ti danno un’idea tutta sballata della vita. Siccome vedi le cose dal punto di vista dei buoni, ti convinci di essere una piccola creatura indifesa o un nobile principe destinato a lottare contro forze molto maggiori delle tue. Il nemico è enorme, e sembra invincibile, ma alla fine cade per mancanza di immaginazione. Il bene trionfa, e tu sposi la principessa elfica o te ne torni a coltivare l’orto dietro la tua caverna hobbit.

Può darsi che sia così anche nella vita e nel calcio, ma c’è una possibilità che noi lettori fantasy abbiamo trascurato. In quasi tutti i romanzi del genere, uno dei personaggi secondari è il BBCCITESRCLM: il Buono Burbero Che Cade In Tentazione E Si Redime Con La Morte. Nel Signore degli anelli, il BBCCITESRCLM è Boromir, figlio guerrafondaio del reggente di Gondor che cade nella tentazione dell’anello, cerca di sottrarlo a Frodo, si pente, viene attaccato dagli orchi e muore eroicamente cercando di difendere la compagnia. A fine capitolo, il suo corpo se ne scende lungo il fiume su una zattera, con armi, scudo, ecc. ecc.

Ecco, la falla nella visione del mondo di noi lettori fantasy potrebbe essere questa. Magari il Signore Oscuro Senzacolori viene sconfitto, alla fine, ma noi siamo Boromir. E una volta che le nostre salme sono lì sulla zattera, trafitte di frecce per spregio dagli orchi con le teste a cresta che ci aspettavano lungo le rive del fiume, sai quanto ce ne frega se poi un ometto alto un metro riesce a buttare un anello nel cratere di un vulcano attivo?