lunedì 3 dicembre 2012

12. Il cantautore neroazzurrogranata

13 febbraio 1949: Torino-Juventus 3-1

Secondo me, ogni vero tifoso dell’Inter dovrebbe essere un po’ torinista. Io, se non fosse che essere torinista è un’impresa ancora più disperata che essere interista, avrei cambiato squadra di sicuro, da qualche parte fra Ciccio Moriero e Gresko, o almeno ne avrei tenute due. Anzi, a ben guardare, il motivo per cui sono rimasto interista, nonostante il mantello da bei tenebrosi e principi della sfiga rovinosa di cui si possono ammantare i tifosi del Torino, nonostante la bellezza delle maglie granata e della stessa parola “granata”, è solo che non si può veramente cambiare squadra. Il tenere per una squadra invece che per un’altra è un marchio casuale quanto indelebile: come uno che ti dà una testata per strada, senza motivo, e ti cambia i connotati per sempre. Ed è veramente un peccato, perché mi sarebbe piaciuto essere torinista: sarebbe stato un modo ancora più perfetto per dire al mondo che anche se tutto sembra darmi torto, in realtà ho ragione, non fosse per il fatto che poi alla fine ho torto.

Negli anni, siccome non potevo tenere al Torino, mi sono costruito la mia gerarchia del tifo, che è una cosa tipo le leggi della robotica di Asimov: 1) tifa per la squadra A; 2) tifa per la squadra B, a meno che il tuo tifo non entri in conflitto con (1); 3) tifa per la squadra C, a meno che il tuo tifo non entri in conflitto con (1) e (2); eccetera. E quindi tifo Torino, tranne quando gioca con l’Inter; Bologna, tranne quando gioca con Torino e Inter. Cesena, tranne quando gioca con Bologna, Torino e Inter. E poi, visto che il mio cugino grande – che adesso fa il giornalista sportivo! – mi disse che teneva per il West Ham, facendomi capire che si poteva anche tifare oltreconfine: tifo Arsenal, Tottenham e tutte le altre squadre di Londra in Inghilterra; Atletico Madrid, Valencia e Athletic Bilbao in Spagna; Saint Etienne in Francia; tutti tranne il Bayern in Germania; eccetera, eccetera, eccetera. Con scelte a volte calcistiche ma più spesso ideologiche, e ancora più spesso completamente casuali (del Saint Etienne mi piaceva il nome, credo).

Ma a parte la gerarchia e l’internazionalizzazione del tifo, che farebbe felice l’ex ministro dell’istruzione Gelmini – che Dio la strabenedica – il Torino è una questione diversa. Intanto è l’altra squadra di Torino, ma per motivi storici si può tranquillamente sostenere che è la squadra di Torino, e che quegli altri sono l’altra squadra di Torino. E poi il Torino è la squadra di Valentino Mazzola – e dopo Superga, e con Sandrino Mazzola, e con le foto di Valentino che lega le scarpe da calcio a Sandrino, ci si può illudere che fra granata e nerazzurro ci sia una specie di legame ideale. Non è vero, e l’Inter degli anni Sessanta, come questa, era di proprietà di un petroliere, ma fa niente: il tifo non è razionale, semmai lo si può razionalizzare a posteriori. E quindi ce li prendiamo (anche) noi, i poeti e i prosatori che hanno scritto del grande Torino, e ci prendiamo un pezzetto di Valentino e di Puliciclone. E quindi noi siamo l’arte, la sconfitta gloriosa e la bella morte, e loro sono la civiltà delle macchine e gli orologi di marca. Loro sono i romani e noi i greci sconfitti, che alla fine hanno conquistato i vincitori e si sono pure portati a casa un Europeo.

Direte che non c’entra, ma ieri sera, all’ora dell’aperitivo, sono andato a sentire Giacomo Toni che suonava da solo. Giacomo Toni è il più grande cantautore italiano – lo dico sempre a tutti, e tutti credono che scherzi – e se oggi fossero gli anni Sessanta lui avrebbe già venduto milioni di dischi. Badate bene, dico cantautore nel senso che è uno che le canzoni se le scrive e se le canta, e non perché sia come gli altri cantautori italiani che tutti conoscono: Giacomo è un gran pianista, un grande musicista, e scrive canzoni, non testi messi in musica. Andatelo a cercare, compratevi i suoi album, ma intanto beccatevi un paio di versi a caso: ‘Sono un po’ in apprensione / Il nostro amore richiede la tua partecipazione.’ La citazione non gli fa per niente giustizia, ma è per dire che non c’è canzone di Giacomo Toni che non riservi qualche sorpresa. Questa, per esempio, è una canzone che ha scritto praticamente da ragazzino. E lui la canta guardando il pubblico con espressione severa.

Il posto in cui suonava Giacomo, ieri sera, era un bar alla periferia di Forlì – uno di quei bar che una volta erano solo bar, con la loro bella compagnia fissa da bar, e che invece adesso sono dei locali in cui si va a prendere l’aperitivo, e ogni tanto, cosa vuoi, bisogna chiamare qualcuno a suonare. Arredamenti molto belli, bancone-bunker quadrato molto elegante, champagne. Quando siamo arrivati, io e la Paola, era troppo presto come al solito, non c’era quasi nessuno. Giacomo era seduto a un tavolino con i suoi testi davanti agli occhi. Ci siamo seduti vicino a lui, con la solita paura di disturbare – Giacomo è molto più giovane di noi, ma in fondo al cuore è un romagnolo di centosessant’anni e hai sempre paura di disturbare – e abbiamo fatto due chiacchiere.

Dopo un po’ la gente ha cominciato ad arrivare, e noi abbiamo cominciato a preoccuparci. Di avventori ne arrivavano moltissimi, ma di pubblico, a giudicare dalle apparenze, poco. Passavano in rivista davanti al nostro tavolo – come se noi fossimo alti ufficiali, e loro reclute dell’aperitivo – giovani uomini con le sopracciglia ritoccate e giovani donne ritoccate da cima a fondo per l’occasione del sabato. Le giovani donne avevano l’aria di sopravvalutarsi parecchio, e i giovani uomini avevano quell’espressione allo stesso tempo attonita e sprezzante che le sopracciglia ritoccate non mancano mai di conferire ai loro portatori. Il fatto di sopravvalutarsi lo capisco, perché capita anche a me, con curva ascendente a partire dallo zero ascisse e ordinate che è l’ultima volta che mi sono guardato allo specchio. Anche l’espressione attonita la capisco, perché sono spesso attonito anch’io. Solo che nel corso della serata è diventato lampante che quei giovani uomini non erano veramente attoniti, ancorché lo sembrassero. Mentre noi forse non sembravamo attoniti, ma lo eravamo.

A locale ormai pieno, uno dei gestori ha cominciato ad affettare del prosciutto crudo e a tagliare del formaggio con un lungo coltello. È arrivato un buffet pieno di ottimi assaggini, alcuni dei quali tartufati. Nel locale, a questo punto, quasi tutte le cose inanimate erano di buon gusto.

Dopo qualche esitazione, Giacomo Toni si è messo al piano. Ha spostato i pomelli del mixer, si è aggiustato il microfono, si è versato il primo di diversi bicchieri di vino rosso. Si è guardato intorno. Ha spostato i pomelli del mixer, ha bevuto un lungo sorso di vino, si è aggiustato il microfono. Ha toccato un paio di tasti con la mano sinistra, ha detto ‘one, two, three, four’ nel microfono, lo ha spostato e ha aggiustato i pomelli del mixer. Ha dato un colpo di tosse esplorativo nel microfono. Ha sistemato le gambe sui pedali e le mani sui tasti, e ha cominciato a suonare. Ha eseguito una lunga introduzione strumentale, e poi si è messo a cantare. Giacomo ha una voce che potrebbe tirare giù il locale senza problemi, ma all’inizio si è messo a cantare così, quasi fra sé e sé, come per non rovinare il brusio.

Tutto intorno infuriava l’aperitivo. Il disinteresse era quasi completo. Il disinteresse non era nemmeno ostile, ma sorridente, paternalistico, stivalato e con le sopracciglia ritoccate. Giovani uomini e giovani donne avvicinavano le bocche alle orecchie per dirsi cose fondamentali, decisive, che non si potevano certo rimandare di un giorno o di un’ora. Volevano sapere come stavano, per Dio, che era da sabato scorso che non si vedevano, e a che ora erano arrivati e arrivate, e se era il primo, il secondo, o il terzo bicchiere, e se avevano visto Gibo. Ogni tanto qualche giovane uomo col calice tenuto alto davanti a sé, come a indicare che lui era uno che non si faceva certo dominare da un calice qualsiasi, si avvicinava al piano e annuiva. Sì – musica – conosco, sembrava dire. Pianoforte – già visto, buono, mi piace. Ogni tanto qualche giovane donna autosopravvalutata si accarezzava i capelli con le dita libere dal calice e guardava il pianista, con l’aria di chiedersi se la musica le donasse all’acconciatura. Ogni volta che Giacomo alzava la voce o aumentava la pressione sui tasti, il brusio tutto intorno diventava un rombo, ma dopo pochi istanti si placava, soddisfatto di avere ristabilito il suo primato sulla musica e sul silenzio. Alla fine di ogni canzone, noi due unici spettatori – più tardi, dopo una pausa, ne sarebbero arrivati altri due – rimanevamo sbalorditi: tutto intorno si levava un applauso proporzionato al ritmo del pezzo appena suonato, ma a parte poche eccezioni, non si vedevano mani che applaudivano.

In tutto questo, Giacomo Toni andava avanti con le sue canzoni. In questo brusio spezzato dai tuoni, Giacomo Toni suonava e cantava le sue canzoni serie e le sue canzoni comiche, le sue canzoni jazzate e le sue canzoni classicheggianti, le sue ballate e le sue canzoni da ballo. In questo tintinnare universale di spritz da cinque euro, Giacomo Toni eseguiva senza fare una singola piega un concerto per cui trenta euro sarebbero stati ben spesi. Al quarto bicchiere di vino, Giacomo Toni cominciava a declamare a memoria versi su versi del canto ventiseiesimo dell’Inferno, e uno dei giovani uomini gli annuiva dirimpetto come a dire io e te ci capiamo, io e te conosciamo le stesse cose, siamo fatti della stessa pasta, io e te. Quello è un microfono, vero? Conosco – ne ho visti, nella vita, di microfoni...

Alla fine del concerto, quando Giacomo ha ringraziato e si è alzato in piedi, si è trovato davanti due giovani donne tanto convinte di sé quanto traballanti sui tacchi del sabato. Non erano alte, quelle giovani donne, e i tacchi in qualche modo lo sottolineavano. Gli hanno chiesto una cosa nell’orecchio, e si è capito che volevano una canzone di Paolo Conte. Niente di male, per carità: una canzone di Paolo Conte. Lì c’era Giacomo Toni, forse loro non avevano sentito più di tre parole di tutto il concerto, perché dovevano chiedere come stavano e da quanto erano arrivati numerosi giovani uomini, e se avevano visto Gibo, e poi alla fine del giro richiederglielo perché nel frattempo era passato del tempo e quindi la risposta era cambiata, e anche Gibo magari era cambiato – insomma, avevano davanti Giacomo Toni e quindi giustamente gli chiedevano una canzone di Paolo Conte. Fossero andate a vedere un concerto di Paolo Conte, sicuramente gli avrebbero chiesto una canzone di Giacomo Toni. Le giovani donne fanno così. Giacomo si è schermito, ha detto che non si ricordava le parole, e allora un giovane uomo si è fatto avanti e ha detto, non c’è problema, me le ricordo io. Te mi accompagni e io canto. Perché i giovani uomini fanno così. Se fosse stato a un concerto di Paolo Conte, sicuramente gli avrebbe chiesto di accompagnarlo che lui cantava, se le ricordava lui le parole di ‘Un bel sabato’ di Giacomo Toni, nessun problema.

E allora Giacomo si è messo al piano, e lo ha accompagnato, e il giovane uomo cantava. Imitava un po’ la voce di Paolo Conte, o meglio, si capiva che voleva far capire che imitava un po’ la voce di Paolo Conte. E come il giovane uomo ha attaccato a cantare, tutti i suoi amici, ed erano parecchi, si sono messi a fare fotografie e filmati con i loro telefoni cellulari tenuti bene in alto – una bellissima scena, anche perché i telefoni erano tutti di ultima generazione – e si è creato un silenzio religioso che non c’era mai stato per tutta la serata. E Giacomo Toni ha continuato a suonare, e il giovane uomo che cantava si è dimenticato un po’ di parole. Per forza, il testo era lungo, complicato, chi non si dimentica un po’ di parole? Giacomo Toni una mezzora prima aveva saltellato come un capretto impazzito fra le sillabe delle sue canzoni comiche più geniali, ma quelle se le è scritte lui, bella forza, no?

Ed è stato in questo momento, quando Giacomo suggeriva le parole che aveva detto di non ricordare al giovane uomo che aveva detto di saperle a memoria, che li ho visti, sotto l’influsso dell’alcol e del mio normale stato di allucinazione nerazzurrogranata. Un uomo di altezza media, dal fisico possente, un po’ chino per tenere le mani sulle spalle di un bambino magro magro, dallo sguardo sveglio. Il bambino non voleva avvicinarsi – forse si vergognava un po’ perché sia lui sia il babbo erano vestiti da calcio, e avevano ai piedi scarpe coi tacchetti invernali, mentre tutti gli altri lì intorno erano vestiti da sera. Ma poi il babbo lo ha preso per mano e lui ha preso coraggio, e si sono avvicinati al piano. E quando si sono trovati davanti al piano il babbo si è accovacciato, ha girato la faccia del bambino verso gli amici del giovane uomo e gli ha detto:

‘Li vedi, Sandrino? Sono quelli della Juve. Qua dentro sono tutti della Juve. Te non fare mai come loro, mi raccomando. E invece vedi quello che suona? Lui è dell’Inter, e in più è un musicista, quindi è come se fosse anche un po’ del Torino. E infatti ha scritto una canzone dove racconta che va in piazza a festeggiare lo scudetto ma è triste perché la ragazza lo ha lasciato.’

Ed è così che mi sono ricordato che proprio quella sera era la sera del derby, che ormai era cominciato da un’oretta buona. E mi sono detto, tanto va a finire come al solito. Oggi i giornali erano pieni delle solite balle sul cuore Toro, e poi va a finire come al solito.

Quando sono arrivato a casa ho controllato, e infatti era andata a finire come al solito.

lunedì 12 novembre 2012

11. Il campionato immaginario

11 novembre 2012: Atalanta-Inter 3-2 → 1-3


Amici, fratelli interisti: d’ora in poi non dovrete più temere il lunedì. Nel momento in cui scrivo guardo fuori dalla finestra, e vedo un mondo desolato, tetro e cupo. Il cielo grigio e la pioggia battente, senza dubbio, influenzano la mia percezione. Ma a pesare molto più gravemente sul mio umore, così come, non ne dubito, sul vostro, ci sono i risultati dell’ultima giornata di campionato. Ed è un fatto che non ho nessuna vera memoria delle condizioni atmosferiche della scorsa domenica (si veda la puntata ‘Una volta nella vita’) – e tuttavia sono convinto che ci fosse il sole e che la temperatura stesse almeno sui venti-venticinque gradi.

Fino ad oggi, in lunedì come questi, vi siete potuti affidare a due ordini di consolazioni: quelle ontologiche e quelle contingenti. Al primo ordine appartengono argomenti ormai ben noti, già trattati a partire dall’undicesimo secolo da filosofi teoretici come Sant’Anselmo d’Aosta. Per esempio: 1) L’importante è la salute, e che tutti i miei familiari stiano bene; 2) Per fortuna quest’anno ho deciso di seguire il basket, che magari non vince la solita Siena, hai visto Varese che va fortissimo? 3) Tanto il campionato italiano, cosa vuoi il campionato italiano, ormai è di seconda fascia, io guardo solo le partite inglesi, figurati; 4) Atalanta che? Ma cosa vuoi che me ne freghi a me del calcio, che ho un sacco di cose da fare? Adesso togliti dalle palle, maledetto juventino.

(Una nota al margine: se usate qualche forma di consolazione ontologica per dichiarare il vostro disinteresse in presenza di altre persone, evitate code come quella che chiude il capoverso qui sopra. Potreste tradirvi.)

Quanto alle consolazioni contingenti, anche qui esiste ormai una letteratura secondaria ampia e varia. Per riassumere, si va da 1) Tanto i conti si fanno alla fine, siamo solo a novembre/dicembre/gennaio/febbraio/marzo/aprile/maggio, a 2) Stramaccioni è bravo, bisogna lasciarlo lavorare, anche con la Primavera all’inizio ha perso parecchie partite, passando per l’intramontabile 3) Io comunque l’ho sempre detto che si deve puntare al terzo posto, anzi, già il terzo posto sarebbe un mezzo miracolo.

Ma ora, come dicevo all’inizio, la vostra scelta non è più limitata a questi due ordini di consolazioni/giustificazioni. A partire da oggi, questa rubrica vi offre il servizio ‘Campionato immaginario,’ grazie al quale potete abitare una realtà parallela in cui l’Inter è la Juve, e la Juve, se mi date due o tre anni di tempo, è più o meno la Santarcangiolese.

Ecco come funziona: in questo preciso istante, prima ancora di finire la puntata odierna di ‘La morte è come una partita dell’Inter,’ andate a tagliare i cavi di tutti i televisori e le radio di casa. Quanto ai vostri computer, sia a casa sia al lavoro, disabilitate i siti sportivi e i portali di informazione in genere. Accordatevi con il vostro edicolante affinché vi tagli le pagine sportive dal quotidiano – se il vostro quotidiano è la Gazzetta, probabilmente vi stancherete presto di pagare un euro e venti per la rubrica ‘altri mondi’ e l’oroscopo. Infine, allenatevi a cantare a squarciagola ‘La fisarmonica’ non appena quel collega che parla sempre di calcio si avvicina alla vostra scrivania di lunedì mattina.

Fatto? Benissimo. Ora godetevi questa intervista che ci ha concesso Andrea Stramaccioni dopo la vittoria per 3-1 in casa dell’Atalanta, che grazie all’uno a uno fra Pescara e Juventus del giorno prima ha portato l’Inter in testa alla classifica del campionato Italiano.


Mister Stramaccioni, ancora una grande vittoria. Dove può arrivare questa sua Inter?
Questo non lo so, lo vedremo solo alla fine del campionato. Però posso dire che ho una squadra di ragazzi fantastici e di grandi uomini, che mi hanno dato la loro disponibilità fin dal primo momento. E non parlo solo dei titolari, perché questi sono tutti professionisti eccezionali. Alvarez, per esempio, oggi mi ha commosso. Non lo faccio giocare quasi mai, eppure oggi gli ho chiesto di lucidarmi le scarpe durante la partita e lui non ha neanche fiatato.

Ora siete in testa alla classifica. Questo vi fa sentire il peso della responsabilità?
Assolutamente, ma guarda, il campionato è appena iniziato, e noi questa è una responsabilità che sentiamo sempre e che ci fa sentire molto orgogliosi. Anzi, più responsabilità abbiamo e più lavoriamo con passione e attenzione. Ma dobbiamo anche ringraziare il Pescara che con la Juve ha fatto una grande partita e che poteva anche vincere, e in particolare permettimi di ringraziare Stroppa che mi ha ascoltato per quarantacinque minuti di telefonata e ha applicato alla lettera tutte le mie disposizioni tattiche.

Ecco. Oggi però, a proposito di disposizioni tattiche, quel gol del Pescara a freddo ha rischiato di mandare all’aria tutti i vostri piani, no?
No, guarda, scusami ma non ti permetto di insinuare questa cosa, perché questi ragazzi sono fantastici, mi danno tutta la loro disponibilità, e noi in allenamento lavoriamo sempre con un’attenzione e una concentrazione assolute. Noi avevamo calcolato questa cosa, avevamo programmato di andare in svantaggio nei primi dieci minuti di partita, perché avevamo studiato un po’ le statistiche e sapevamo che l’Atalanta prende molti più gol quando è in vantaggio che sullo zero a zero. Quindi avevo chiesto ai ragazzi di prendere gol nei primi dieci minuti, e loro sono stati perfetti. Ma del resto lavoro con dei grandi professionisti.

Comunque certi dettagli, apparentemente casuali, lasciano pensare che questo potrebbe davvero essere l’anno dell’Inter. L’Atalanta che sbaglia il rigore del due a uno, e voi che segnate subito dopo. E poi quei tre gol al venticinquesimo, al cinquantesimo e al settantacinquesimo minuto.
No, vedi, mi piacerebbe, ma non so se lo possiamo interpretare come un segno del destino, perché i tre gol fatti così erano uno schema provato in allenamento. Avevo chiesto ai ragazzi di segnare solo in minuti multipli di cinque, e se possibile ai multipli di venticinque, cioè cinque al quadrato. Ci siamo detti: così l’avversario capisce che anche la matematica è dalla nostra parte, e perde tutte le speranze. E poi il tabellino finale viene più ordinato. In questo senso avrei sperato che nessuno degli avversari si facesse espellere nel finale, ma è andata così, dai. Non ti può sempre riuscire tutto.

E il rigore sbagliato dall’Atalanta? Anche quello è uno schema provato in allenamento?
Guarda, l’idea era che se verso il quarantottesimo eravamo in fase difensiva, cioè non stavamo sviluppando l’azione d’attacco di sei minuti e quarantadue secondi che doveva portarci a fare il secondo gol al cinquantesimo, Zanetti doveva toccare la palla di mano nella nostra area. A quel punto Palacio aveva la consegna di scattare sulla sinistra nel momento esatto in cui Denis calciava. In realtà Handanovic ci ha messo tre decimi in più del previsto ad alzarsi e a lanciare la palla con le mani, ma è andata bene lo stesso perché avevo calcolato la reazione del loro difensore, Stendardo, con sette decimi di errore sperimentale.

Molto bello il terzo gol, segnato da Livaja appena entrato. Certo questo ragazzo ha fatto una maturazione impressionante. Solo tre giorni fa faticava con i dopolavoristi del Partizan Belgrado, e oggi invece è partito dalla sua metà campo, ha scartato tutti ed è entrato in porta col pallone.
Sì, guarda, il gol di Marko mi ha fatto davvero molto piacere, perché lui si allena sempre con grandissima attenzione e concentrazione. Poi c’è da dire che il vero Livaja, secondo me, non l’abbiamo ancora visto. Oggi, per esempio, l’abbiamo sostituito con un cyborg che ha le sue sembianze. È un robot killer riprogrammato solo in parte da me, che gli faccio due ore di discorsi tattici al giorno e gli metto personalmente l’olio da macchine.

Grazie, Mister Stramaccioni. Buona domenica.
Grazie, ma per me che sia domenica non ha nessuna importanza, io sto già pensando al Cagliari. E guarda, hai la lampo abbassata.

Eh? Oh.
Sì. È un errore tipico da disattenzione, bisogna che per un paio di settimane ti vesti cinque-sei volte al giorno, invece di una sola. E la maglietta rossa sotto al maglione verde non la mettere più, che sta malissimo. E poi col tuo colore di capelli è meglio che usi dei colori pastelli, no? Fa’ una cosa, chiamami domattina sulle sette e mezzo, che ti faccio fare un po’ di riscaldamento al telefono e poi mi dici cos’hai nell’armadio. Eh? Ciao. Ciao. Stammi bene. Ciao.

Ehm... Ciao.

Bene. Qui finisce il servizio ‘Campionato immaginario,’ e quindi invito i lettori che hanno deciso di avvalersene a non proseguire la lettura. Per gli altri, e in particolare per gli interisti che abitano nella zona di Madrid – che non saranno tanti, ma qualcuno ci sarà – vorrei aggiungere una noterella finale. Due anni fa, Mourinho fece dichiarazioni d’amore per l’Inter poco prima del derby decisivo vinto dal Milan con doppietta di Pato. L’anno scorso, Mourinho si era dichiarato interista dopo il ciclo di vittorie di Ranieri, e subito prima che quel ciclo finisse. Quest’anno, Mourinho se n’era stato zitto fino a qualche tempo fa, quando ha annusato l’aria e ha ricominciato a parlare dell’Inter.

Per cambiare completamente discorso, pare che Mourinho sia molto affezionato a un porcellino d’india comprato a Milano e portato poi in Spagna. Questo grazioso animaletto vive nel giardino di Casa Mourinho, ed è ghiotto di Indivia Riccia. Si chiama Quaresma.

lunedì 5 novembre 2012

10. Una volta nella vita

3 novembre 2012: Juventus-Inter 1-3

Alle otto e quaranta del 3 novembre 2012, mi rendo conto che c’è Juve-Inter. Il che è curioso, perché lo so almeno da un paio di settimane che c’è Juve-Inter. Ma solo alle otto e quaranta del 3 novembre 2012 me ne rendo conto. Cioè, solo alle otto e quaranta, che nel frattempo sono già diventate le otto e quarantadue – ma ci sarà un motivo se il primo momento di piena lucidità è arrivato alle otto e quaranta e non alle otto e quarantadue – mi rendo conto che proprio oggi, 3 novembre 2012, c’è Juve-Inter. Di tutti i giorni che poteva scegliere, fra tutti gli anni che poteva scegliere, il computer o chi per lui (chi diavolo li decide i calendari dei campionati di calcio? Da quando hanno radiato Moggi non si viene mai a capo di nulla!) ha selezionato proprio il 3 novembre 2012, per Juve-Inter. Si poteva giocare anche domenica 4 novembre, magari il posticipo serale, ma no: il computer, con il suo bel simulatore di Moggi inserito dentro, ha deciso che si gioca stasera, il 3 novembre, quando io sto per andare al ristorante cinese con la Paola e i bambini.

Cioè, non che Giovanni si possa definire un bambino. Ha sedici anni ed è più alto di me – non ci vuole moltissimo ma l’ho trovato scortese lo stesso, quando mi ha superato. E tifa Juve. Ovvero non gliene frega niente del calcio ma dice che tifa Juve, che poi è tipico di quelli a cui non frega niente del calcio.

Comunque, ormai sono le otto e quarantasette e la Paola non è ancora pronta. Cecio, che si chiama Francesco ma vuole che lo chiamiamo Cecio, l’ho vestito, ha già le scarpe e la felpa termica, gli manca solo la sciarpa. Perciò faccio una cosa che non dovrei mai fare, quando c’è Juve-Inter. Mi infilo furtivo nella camera di Cecio, che se ne sta in sala a sudare con tutti gli strati che gli ho ammassato addosso. Accendo la televisione, la rai, metto il televideo e digito il numero duecentoventi. Così, giusto per vedere le formazioni, mento a me stesso – e mentre le tre cifre girano verso la combinazione fatale, contraggo i soliti muscoli innominabili e spero che in due minuti l’Inter sia già sul 2-0 e la Juve sia ridotta in otto per un attacco di follia collettiva. Magari in sette, va’, che in otto sono capaci di rimontare.

E invece eccolo là, il televideo. Il solito, irritante televideo. Me lo fa apposta. Juventus 1 Inter 0, dice. Vidal al primo minuto.

Contro di noi segna persino lo shampoo.

Spengo la televisione, metto altre tre felpe termiche al piccolo e usciamo. Camminando verso la macchina, maltratto chiunque per futili motivi. Guido in silenzio mentre gli altri parlano. Se mi rivolgono la parola, rispondo come un automa. E pensare che questa sera mi piaceva, l’idea del cinese, perché mi hanno pagato per un concerto e mi dà gusto usare quei soldi lì. Ma anche il glutammato di sodio extra-stipendio, ormai, che sapore vuoi che abbia?

Parcheggiamo in centro, scendiamo dalla macchina, ci avviamo verso il ristorante cinese.

‘Oh, stasera c’è Juventus-Inter!’ fa Giovanni.

Se fossi più lucido gli direi che nessun vero appassionato di calcio direbbe ‘Juventus’, ma in questo momento sto usando tutte le mie energie mentali per non mettermi a borbottare. Voglio tenere per me il mio dolore adolescenziale, e mettermi a borbottare sarebbe un grave errore. Come staccarsi una crosta in zona di squali.

Mi metto a borbottare.

‘Cioè, no, ma ti rendi conto, di tutti i giorni che potevano scegliere per questa partita, hanno scelto proprio il 3 novembre 2012? Che io di mio non gliela metterei proprio in calendario, Juve-Inter, cioè io se potessi eliminarli, quei maledetti, se potessero andare a giocare nel campionato tedesco, ma voglio dire, proprio stasera? Mavaffanculo!’

Grande Moro. Calmo, raziocinante, articolato. Cos’hai, nove anni?

In effetti sì – nove anni esatti. Me ne rendo conto perché mi guardo intorno in cerca di una lattina. Se ci fosse almeno una lattina buttata per terra, mi metterei a calciarla e dribblerei tutti. Oh, se li dribblerei tutti. Lo devono ancora inventare, il bambino di sei anni che è in grado di fermare una serpentina del Moro!

Quando entriamo al ristorante, approfitto di un attimo di distrazione dei tre minorenni per sibilare alla Paola, come se fosse colpa sua:

‘Che stava già anche uno a zero, cazzo. Al primo minuto!’

Allargo le braccia in un gesto di impotenza universale, ho gli occhi lucidi, ma la Paola, che è in piedi davanti a me e che quando è in piedi, anche se è alta un metro e settanta, sembra sempre venti centimetri di più, e non sono i tacchi, ha l’aria sorniona.

‘Non è ancora finita,’ dice sorridendo.

Io faccio un sorriso amaro, ma qualcosa dentro di me mi dice: bene, ora ti siedi e ti metti tranquillo. 

Allora mi siedo, mi metto tranquillo e ordino. Ci metto un po’, ma alla fine scelgo una zuppa piccante al pollo e i tagliolini allo scoglio alla piastra, che quando la signora del ristorante te li porta dice sempre ‘tagliatelle allo scoglio alla piastra.’ Giovanni, come d’abitudine, prende gli involtini primavera, gli spaghetti di riso e i gamberoni alla piastra, che quando la signora del ristorante te li porta dice sempre ‘gamberoni alla piastra.’ La Paola, spaghetti di riso e un secondo di carne che non ricordo (sto pur sempre cercando di fare espellere quattro juventini col pensiero). La Bianca, involtini e riso cantonese. Cecio aspetta il gelato fritto.

Per compiacerci, i ristoratori cinesi fanno arrivare le cose in ordine occidentale. Dopo gli involtini (antipasti) e prima degli spaghetti e del riso (primo asciutto) arriva la zuppa (primo in brodo). Io, come faccio sempre, chiedo alla Paola se ne vuole un po’. La prima volta gliel’ho chiesto per gentilezza, ma adesso glielo chiedo perché così le permetto di dire quanto le fa senso quella verdura mezza cotta in quell’acqua mezza salata. È una di quelle routine di famiglia che funzionano sempre e ti fanno stare bene, anche se mi farebbe stare meglio se l’anticipo di campionato fosse Siena-Cagliari. Che io i tifosi del Siena e del Cagliari me li immagino tranquilli, che anche loro dicano ma sì, chissenefrega poi se ha vinto il Siena o ha vinto il Cagliari? Non è mica Juve-Inter!

Ma me ne sto buono e non dico nulla, e qualche speranza nel cuore, cioè appena sopra a dove si sta andando a depositare il glutammato di sodio, ce l’ho. Perché la Paola, anche se i dettagli li dirò un’altra volta, è quella che ha fatto sì che beccassero Moggi e facessimo la tripletta del 2010. Non Tronchetti Provera, non Mourinho, non Milito: la Paola. Quindi se lei, proprio la sera del 3 novembre 2012, mi guarda sorridente e mi dice che non è ancora finita, vuol dire che non è ancora finita.

Giovanni finisce gli spaghetti di riso e dice, con la tranquillità beffarda che gli deriva dal suo personale superpotere, che a sua volta gli deriva, più che dal fatto di essere uno juventino fasullo, dal non fregargliene niente di niente né della Juve né di nient’altro:

‘Eh, è finito il primo tempo, eh?’

‘Eh,’ faccio io.

‘Anzi, è già il secondo tempo.’

‘Eh.’

Giovanni finisce anche i gamberoni e dice, con la stessa tranquillità, lo stesso superpotere e lo stesso non fregargliene niente di niente:

‘Eh, è finita la partita, eh?’

‘Eh,’ faccio io.

‘Chissà com’è andata, eh?’

‘Eh.’

Quando ordiniamo il gelato fritto, Cecio pianta una piccola grana. Giovanni vuole un gelato intero, alla Bianca ne basta mezzo e noi sappiamo che Cecio non ne finirebbe mai uno intero. Ma lui ne vuole uno intero come Giovanni. Lo convinciamo con il metodo matematico.

‘Mezzo gelato è meno di un gelato intero,’ gli dico contando sulle dita. ‘Ma è più di nessun gelato.’

Grazie alla matematica, Cecio si convince. Fatica a finire il mezzo gelato. Il gelato intero di Giovanni viene annientato da un laser antimateria. Io mi alzo per andare a pagare, e traggo qualche conforto dal fatto che nessuno parla della partita. Di solito, se l’Inter ha perso con la Juve o col Milan e io sono in un locale pubblico, trovo sempre qualcuno che lo dice ad alta voce. Al fischio finale del derby di ritorno della coppa dei campioni 2002-03, passavo davanti a un bar di Bologna e ho sentito una ragazza urlare: ‘Siete fuori, bastardi!’

Non avevo dubbi che parlasse con me.

Pago, bevo una grappa alla rosa e una alla prugna offerte dalla signora del ristorante, ringrazio, usciamo, e mentre ci avviamo alla macchina non sento neanche il rumore dei biscotti della fortuna scartati dagli altri quattro.

‘Adesso sentiamo com’è andata alla radio,’ fa Giovanni.

‘Neanche per sogno!’ dico io. Alla radio? Scherziamo? Di questo passo, andrà a finire che la prossima volta guardo anche la partita.

A casa riesco a entrare prima di tutti gli altri, a infilarmi di nuovo in camera di Cecio e ad accostare la porta. Tv, rai, televideo, pagina 220. I numeri girano. Io guardo da un’altra parte, poi guardo lo schermo. Ci metto un po’ a capire. Quando la Paola entra in casa e mi chiede com’è andata, la ringrazio. Lo so che è stata lei.

A mezzanotte compio quarant’anni, e sono ancora lì che mi guardo Boninsegna che commenta la partita. Rispetto a me, Bonimba ha qualche anno in più e un po’ di pancia. In una cosa, però, siamo uguali. Anche lui ha un sorriso che sembra una paralisi. Si vede benissimo che non ci crede.

lunedì 8 ottobre 2012

9. Il brutto, il brutto e il brutto

7 ottobre 2012: Milan-Inter 0-1

Ci sono cose che non devi fare, e sai che non le devi fare: però ogni tanto le fai lo stesso. Le fai per eccesso di sicurezza, per pigrizia mentale, oppure in quei momenti di pura, primitiva stupidità che capitano anche ai ragionieri meglio addestrati.

Io, che pure sono figlio di ragionieri, e ormai conosco i miei limiti, ho di questi momenti con regolarità quasi contabile. Ai convegni, per esempio, in genere mi preparo benino, perché so che se lascio troppo spazio all’improvvisazione il dio della retorica accademica (che già nei giorni buoni mi guarda accigliato, e mi tollera a stento in quanto impostore titolato) prima o poi mi farà pagare il conto. A metà intervento sentirò il ronzio di una mosca vicino a un orecchio, e questo mi farà dimenticare completamente la frase che ho cominciato senza sapere bene dove portarla, e che soprattutto non mi sono scritto sull’inutile foglio pieno di freccine e cancellotti che ho davanti (in compenso, in quel momento avrò perfettamente in testa tutto il testo di ‘Panic’ degli Smiths, allitterazioni e toponimi assurdi compresi). Oppure alzerò lo sguardo sull’uditorio, e lo sguardo perplesso o sprezzante di un uditore ignoto mi porterà a rapidissime e incontrovertibili conclusioni sull’assurdità della traduttologia contemporanea e dell’intera esistenza umana nel corso di pochi, lunghissimi istanti di silenzio. In questo caso non aiuta, alla fine, la mia convinzione che l’intera esistenza umana abbia in effetti pochissimo senso, e che anche la traduttologia contemporanea sia un po’ sopravvalutata sul piano scientifico.

A volte mi deprime, questa mia incapacità di imparare dagli errori. A volte penso sia una forma di cupio dissolvi, un modo per dimostrare che sono davvero quell’incapace imbucato nella vita di qualcun altro che i miei sogni mettono in scena una notte sì e una no. Poi penso all’Inter, e mi rassereno un po’. Alla fine ha la sua utilità personale, tifare per l’Inter. L’ho detto all’inizio di questa serie di articoli, ho intenzione di dimostrarlo, e non permetterò certo alla logica di distogliermi dai miei obiettivi.

L’inter mi consola, mi fa sentire meno solo in questa mia debolezza. Perché ha fatto spesso la stessa cosa, e del resto, se non l’avesse fatta, avrebbe vinto almeno cinque-sei campionati e due-tre coppe in più. In sostanza, se l’Inter non si fosse comportata così spesso come me a un convegno, sarebbe stata la Juve. E quindi forse non avrei tifato Inter, ma Juve. E adesso, alla fine di questo capoverso, saremmo da capo, solo a nomi invertiti. E per il resto non sarebbe cambiato un accidenti, perché io non sono mai stato né a San Siro né al Comunale di Torino né allo ‘Juventus Stadium’ (ma per favore...), e per me tutto questo è solo un grande ammasso accumulato negli anni di nomi, facce viste nelle figurine Panini e corpi visti in televisione.

In sintesi: l’Inter è una squadra che prospera nella bruttezza. Quando fa schifo con ardore, con assoluta convinzione nei propri nefandi mezzi, può vincere qualsiasi cosa contro chiunque. Quando fa schifo con poca fiducia in se stessa, con un senso di inferiorità nei confronti della forte Juve o del bel Milan, può al massimo arrivare terza o quarta. Quando cerca di essere elegante, di comprare giocatori raffinati e di applicare schemi complicati, può rischiare la retrocessione. Eppure, ogni tanto i presidenti dell’Inter dimenticano questa fondamentale verità e perseguono il bello, come se una partita di calcio fosse un’anfora greca. C’è qualcosa di filosoficamente sbagliato in questa idea estetica del calcio, ma è complicato spiegarlo, e ci tornerò qualche altra volta. Per adesso, mi basta enunciare un postulato minore e facilmente dimostrabile: all’Inter, il Bello e l’Utile non si sovrappongono mai. Se avete avuto l’impressione che lo facessero, cari amici correligionari, è perché a volte (il Trapattoni del 1989, il Mourinho del 2010) l’Utile è stato catturato e portato a casa in modo così efficiente che il procedimento stesso vi è sembrato bello. In parole povere, se l’Inter a volte vi sembra piacevole a vedersi è perché siete interisti. Ma quando vinciamo siamo come il Barcellona di Guardiola, anche se per motivi opposti: ci divertiamo solo noi.

Partiamo dalle prove negative: nel 1991, siccome al Milan c’è Sacchi, il presidente Pellegrini decide di prendere Corrado Orrico, il ‘Maestro di Volpara.’ In luglio, Orrico passa una settimana con un ingegnere a costruire un campo-gabbia. La sua aspirazione è quella di creare un calcio totale che coniughi una forte fase difensiva con un’organizzazione d’attacco perfetta. L’aspirazione di Walter Zenga e degli altri giocatori importanti dell’Inter è invece quella di abbattere la gabbia di Orrico a testate. Dopo l’andata del primo turno di coppa Uefa, contro i portoghesi del Boavista, Orrico dichiara ‘è più facile che crolli il Duomo piuttosto che l’Inter venga eliminata.’ L’Inter viene eliminata, e dopo qualche mese viene eliminato anche Orrico – anzi, si elimina da solo. La gabbia rimane anni e anni, a ricordare ai presidenti successivi che dalla ricerca della bellezza non può nascere niente di buono.

Nel 2010, il presidente successivo guarda la gabbia, pur sforzandosi non riesce a ricordare la storia che gli avevano raccontato su quel coso lì, e ingaggia Benitez, uno bravo, che sa far giocare la squadra e ha vinto una coppa dei campioni. Appena arrivato, Benitez guarda anche lui la gabbia, con una specie di inspiegabile concupiscenza. Poi guarda l’accozzaglia di adepti dell’orrore calcistico che ha davanti e dice, più o meno: ‘Con Mourinho avete imparato a vincere, con me adesso imparate a giocare.’ Nessuno, credo, gli fa presente che dire una cosa del genere all’Inter è come presentarsi alla Pollo del Campo e dire: ‘Fino ad ora vi siete occupati di produrre più uova sempre più grandi, ma adesso, con me, vi dedicherete allo studio della forma ovale perfetta.’ L’Inter gioca bene per due o tre partite, poi comincia a disunirsi e vince il mondiale per club solo perché le recapitano in finale il Mazembe, il cui nome intero è Tuit Puissant Mazembe e che prima si chiamava Tuit Puissant Englebert (!). Benitez se ne va, tutto offeso, neanche fosse il Tuit Puissant Englebert. A quel punto arriva Leonardo, che sarebbe un profeta del bello ma ha la stessa idea tattica del calcio che ho io dell’equitazione: ci sono dei cavalli che corrono e saltano, e c’è della gente con un buffo copricapo che se ne sta aggrappata ai cavalli.

E poi si potrebbe citare Lippi, che vorrebbe fare dell’Inter una squadra forte e dominante sul modello della sua Juve. E Gasperini, che vorrebbe fare il calcio totale e invece riduce tutto il gioco della squadra allo schema ‘palla a Lucio che ne scarta due, il terzo gliela soffia e gli altri fanno gol’ (qui il copyright è del correligionario Davide Barzi).

E le prove positive? Praticamente ogni scudetto, ogni coppa vinta dall’Inter è un elogio della bruttezza. Limitandomi alle squadre seguite in prima persona, posso citare quella di Bersellini, che fuori casa faceva le barricate anche con l’Universitatea Craiova; quella di Trapattoni, che costruiva azioni micidiali fatte di due passaggi, con Serena che faceva a capocciate e Matthäus e Berti che si scagliavano in area come bufali impazziti partendo da centrocampo; quella di Simoni, che avrebbe dovuto vincere lo scudetto del 1998 diventando la squadra titolata più orrenda mai vista su un campo di calcio (fatta eccezione per un ballerino velocista mai visto né prima né dopo).

E tutta questa sequela di orrori, di mediocrità trasformata in grandezza per pura ostinazione, è culminata nella tripletta vittoriosa del 2010, ottenuta con un’Inter che aveva rinunciato ai colpi di tacco di Ibrahimovic per mettere due centravanti a fare i terzini. Che quando c’era bisogno difendeva dentro all’area anche in sei o sette, costruendo un gioco pieno di tocchi sporchi, di deviazioni all’ultimo, di tuffi di testa e scivolate in difesa e di lanci lunghi in attacco. Lo stesso gioco con cui ieri Stramaccioni, che in questo senso è davvero il nuovo Mourinho, ci ha fatto vincere un derby a cui mancava, per completarne la tristezza, solo un campo di gioco marrone e spelacchiato tipo quello dell’Avellino anni Ottanta.

(A proposito, povero Josè – costretto a scendere a patti con i maledetti esteti del Madrid. Se non ci tenesse così tanto a essere ricordato come Il Migliore, li avrebbe già mandati a quel paese da un pezzo.)

E tuttavia, dopo questa apoteosi del calcio parrocchiale, il presidente Moratti c’è ricascato. Benitez, Leonardo e Gasperini, per poi arrivare finalmente a Stramaccioni passando per l’onesta ma grigia bruttezza di Ranieri.

È incredibile, come io e la mia squadra non impariamo dagli errori.

Una nota per i lettori: questa rubrica è stata assente per tutta l’estate, e anche adesso le puntate non saranno frequenti per via del fatto che – oltre al lavoro che mi dà da mangiare – in questo periodo sono piuttosto occupato a presentare un disco, Silent Revolution. Qualche giorno fa, in un concerto di presentazione, ho pensato di fare una sola cover: ‘Panic’ degli Smiths. L’ho deciso all’ultimo momento, improvvisando un po’, e ho dato un’occhiata rapida al testo. L’ho anche provato, ma dopo un po’ ho lasciato perdere: quante volte l’avrò sentita, ‘Panic’? Dai, in pratica la so a memoria. In concerto, a metà canzone ho alzato lo sguardo sul pubblico: quali erano, poi, i toponimi assurdi e allitteranti che tirava fuori Morrissey? Niente. Il vuoto. E non sono nemmeno riuscito a biascicare qualcosa in inglese maccheronico, perché guardando in faccia quelli che c’erano lì in prima fila ho capito che se ne sarebbero accorti.

In compenso, mi è venuta in mente la fine di una frase che avevo lasciato a metà a un convegno di qualche anno prima.

venerdì 6 luglio 2012

8. Il calcio d'estate


22 agosto 1984: Spal-Inter 0-3

Un tizio che giocava con me nel mio campionato di nessuna categoria aveva l’abitudine, tutte le estati, di passare dal calcio al basket. Ci si trovava al campetto per la solita partitella e io gli chiedevo, non vieni a giocare? Ma lui sorrideva con l’aria di chi la sa lunga e diceva che la stagione del calcio era finita, e cominciava quella del basket. Vieni tu a giocare a basket, mi diceva. Tanto vale che provi a saltare nel cerchio di fuoco, mi dicevo io, e continuavo a dribblare infornate sempre nuove di incapaci estivi.

(Non so nemmeno come si corre, nel basket. Qualsiasi cosa tenti di fare, sbaglio. È come se madre natura mi avesse strutturato per produrre falli e infrazioni cestistiche.)

Ora, io non so che senso abbia dire che l’estate è la stagione del basket e non la stagione del calcio, ma non so resistere alle affermazioni categoriche apparentemente prive di senso – anzi, tanto più sono insensate tanto meno sono capace di resistere. Ragion per cui, anche se allora mi dava fastidio perdere giocatori a favore del basket, oggi mi trovo a dire, alla Paola che mi chiede se vado a giocare al campetto con i miei amici cinquantenni e i miei amici immigrati (a quanto pare, non si dà un cinquantenne immigrato):

“No, la stagione del calcio è finita. È iniziata la stagione della bicicletta.”

Dopodiché contemplo per un quarto d’ora la possibilità di inforcare la mountain bike lilla comprata dal mio fratello minore anni fa, e poi da me ereditata come tutte le cose kitsch comprate dal mio fratello minore, e questa contemplazione già mi tonifica i muscoli. Una volta tonificato, con l’appetito stimolato da una remota possibilità di movimento, chiedo cosa si fa per cena. E se la Paola si stupisce e mi dice, non dovevi andare in bicicletta? Anche lì ho la risposta pronta:

“Eh, ma da questa parte della città le colline sono lontanissime. Io in pianura mi annoio, e poi finisce che arrivo ai piedi della Rocca delle Caminate già spompato e mi tocca tornare indietro.”

A questo punto, ulteriormente tonificato dall’idea platonica della Rocca delle Caminate, occupo il tempo che mi separa dalla cena nell’unico modo possibile, per un uomo che ha finito il lavoro quotidiano e che non si trova più nella stagione del calcio. Ovvero accendo il televideo, oppure vado in qualche sito internet di quelli che appena si avvicina qualcuno ti sposti sul pdf delle bozze corrette e consegnate da anni, e cerco le notizie importanti. Le notizie che decideranno della mia sorte e del mio umore per tutto l’autunno, l’inverno e la primavera successivi. L’ottanta per cento degli uomini ha già capito. Il calciomercato.

Il calciomercato è una cosa molto difficile da spiegare alle donne, o agli uomini che non si interessano di calcio (io ho diversi amici musicisti, e i musicisti si fanno un punto d’onore di disprezzare il calcio: ma come, vuoi mettere la complessità di una sonata di Mozart con un dribbling di Maradona? La classe di David Byrne con la classe di Platini? Tu rispondi no, in effetti, e intanto pensi che Maradona è grasso e fa l’allenatore in qualche deserto asiatico, Platini è grasso e fa il presidente di un ridicolo organismo internazionale, e Kolarov a sinistra sarebbe perfetto, e a destra ci possiamo mettere Nagatomo o Jonathan). Le donne, in particolare, anche quelle disposte a concederti (malvolentieri) un qualche interessamento per ventidue cretini in braghe corte che inseguono una palla, non riescono a capire come tu possa perdere tempo a seguire quelli che ne parlano. Le interviste. Le discussioni tattiche. Le polemiche televisive. Il calciomercato. Il calciomercato, Santo Dio.

Ci sono due risposte possibili – ma che non do mai, per evitare di palesare la mia idiozia – a tutte le obiezioni sul calciomercato, e più in generale sul calcio non giocato. La prima, quella generale, è che il calcio giocato, il calcio visto, è quasi sempre pallosissimo, molto peggio di quello scritto o parlato. Novanta minuti sono tantissimi, e a differenza di quanto succede nel basket, in molti di quei minuti non dico che non si segna, ma non ci si avvicina nemmeno alla porta, e bisogna cercare di esaltarsi per un triangolo nella trequarti difensiva. La noia già costitutiva dello sport, causata dall’aver costretto venti persone a usare tutto tranne le mani per spingere una palla in porta in un campo lunghissimo, è peggiorata ulteriormente dagli anni Novanta in poi, con Sacchi e il dannatissimo pressing che trasforma nove partite su dieci in allegre tonnare a centrocampo. “Perfetta diagonale difensiva di Scaramuzzolo”, si esaltano i telecronisti sollecitando i nostri vaffanculo. E la situazione è ulteriormente peggiorata con il maledetto Barcellona e la maledettissima Spagna, che impiegano il novantanove per cento delle loro energie a non far toccare palla agli altri. Ma perché, dico io? Allora non venire neanche a giocare. Allora non stupirti, se seguo le partite al televideo.

(Per carità, immagino che i tifosi del Milan di Sacchi si divertissero, e che si divertano anche i tifosi del Barcellona e della Spagna. Ma si divertono solo loro, e il primo che dice che il calcio è uno spettacolo ed è sempre un piacere vedere del bel gioco gli entro sul ginocchio destro a piedi uniti.)

La seconda ragione, quella che riguarda specificamente il calciomercato, è che sono interista. Come ho già detto in qualche altra puntata, dai miei diciotto ai miei trentaquattro anni l’Inter ha vinto due coppe Uefa, due coppe Italia e uno scudetto a tavolino. Il Milan e la Juve (le altre non contano) non voglio nemmeno mettermi a elencare quello che han tirato su. Ma se c’è una stagione dell’anno in cui la mia squadra non ha mai temuto nessuno, quella è l’estate. Il calciomercato. L’Inter l’ha sempre stravinto, il calciomercato.

Quasi ogni anno, dal 1990 al 2006, l’Inter prendeva un grandissimo giocatore che di sicuro poi ci avrebbe fatto vincere il campionato da solo. Certe annate, con Moratti, l’Inter prendeva cinque grandissimi giocatori che poi ci avrebbero fatto vincere cinque campionati da soli. Figo. Vieri. Roberto Carlos. Djorkaeff. Baggio. Klinsmann. Matthäus. Berti. Rummenigge, di cui ho messo nel titolo l’esordio italiano con gol, in Coppa Italia. E sopra tutti Ronaldo, che nel 1997-98 era l’unico che poteva vincere davvero da solo (e lo faceva, se guardate il resto della formazione del 1997-98) e al cui solo pensiero mi si inumidiscono gli occhi (lo dirò con pacata oggettività: quello scudetto, quello e nessun altro, era nostro, maledetti, possa quel pesce antropomorfo marcire all’inferno. Dai, squalificatemi per cinque giornate).

Grandi, grandissime annate di calciomercato. Enormi titoli della gazzetta. Grandi soddisfazioni, mai offuscate più di tanto dal fatto che poi la maggior parte di questi grandi acquisti si rivelassero vecchi, rotti o imbolsiti, o semplicemente incapaci di giocare a calcio in una squadra fatta di dieci grandi attaccanti, mezzo centrocampista e tre difensori coi piedi di marmo. Gli interisti amano il calciomercato, e non si sono mai lasciati distrarre dal fatto che le Inter più forti in assoluto sono state fatte con acquisti oscuri, ragazzi del vivaio e uno, due grandi acquisti al massimo: Suarez comprato a peso d’oro per farlo giocare con Mazzola e Facchetti. Maicon, Cambiasso e Zanetti che non li conosceva nessuno. Niente, se chiedete anche oggi a un qualsiasi interista chi vorrebbe vedere nell’Inter dell’anno prossimo, vi risponderà (o vorrebbe rispondervi, in fondo al cuore) Messi, Robben e Van Persie. Centocinquanta milioni di euro di roba, per intenderci con quelli che disprezzano il calcio e sono rimasti a Platini e Maradona.

Ma oggi, all’inizio di luglio del 2012, l’interista non ha più nemmeno di queste soddisfazioni. Per motivi che non starò a spiegare, perché quelli che li sanno li sanno, e quelli che non li sanno si annoierebbero a morte, l’Inter non può spendere se non dopo aver incassato, e non può ingaggiare calciatori con stipendi troppo alti. Per cui la coppa calciomercato la vince la Juve (anche quella? Volete anche toglierci le libertà civili, già che ci siete?), e il tifoso dell’Inter deve accontentarsi di aver riscattato Guarin o di aver mandato Caldirola in prestito alla Cremonese per farsi le ossa. E se provate a dirgli che è meglio così, che adesso Moratti e soci potendo spendere meno dovranno spendere meglio, farà di sì con la testa prima di andarsi a rivedere su youtube la presentazione di Pancev (“Voi fischiare, fischiare... io intanto guidare Ferrari”, disse un po’ di tempo dopo: e non venitemi a dire che è stato un acquisto inutile).

A dire il vero c’è sempre stata un’altra occupazione calcistica estiva, per l’interista come per il romanista e il laziale e il torinista e il genoano e il sampdoriano: la nazionale, un anno sì e uno no. Perché almeno, con la nazionale, non si correva il rischio di venir presi per il culo da nessuno. Con la nazionale si soffriva e si andava in piazza tutti insieme (dopo le finali vinte, per favore: in qualsiasi altra occasione è di cattivo gusto e mena iazza, lasciatevelo dire da un interista), e le delusioni erano condivise con un unico grande paese desolato e silenzioso, come dopo la finale degli Europei del 2000.

E invece no, per me non funziona neanche più la nazionale. Perché purtroppo c’è l’Unione Europea, come avrebbe detto un ex presidente del consiglio, e nel mio palazzo è venuta a stare una coppia di spagnoli. E lui, un omone alto alto e grosso grosso, l’altro giorno mentre prendevo la macchina in garage mi ha salutato con quattro dita, come Totti dopo un Roma-Juve. Ridendo, come se fosse una cosa simpatica. E io volevo dirgli, Ah, eri in campo anche tu? Non ti ho mica visto. Oppure, Guarda che mi hai scambiato per qualcun altro, mi hai scambiato per uno sportivo. O ancora, Eh, cosa? No, guarda, io lo sport non lo seguo. O avrei potuto fingere di non sapere l’italiano – il che, visto che con il vicino spagnolo ci siamo parlati diverse volte, sarebbe equivalso a spacciarmi per un sosia di me stesso. E invece ho borbottato qualcosa di quasi incomprensibile a chi non fosse dentro alla mia testa, e lui, visto che non condividevo il suo divertimento, c’è quasi rimasto male.

Bisogna proprio che tiri fuori la bicicletta di mio fratello. E già che ci sono, passo dal retro e tiro giù la bandiera spagnola del mio vicino.

Ci risentiamo a settembre. Cosa si fa per cena?


domenica 27 maggio 2012

7. Neve, buio, ragazzo scuro


28 aprile 2010: Barcellona-Inter 1-0
 
Sì, sì, d’accordo. Arriverò a parlare anche della Champions League. Anche perché parlarne per iscritto è più facile – non sono costretto a far finta di non sapere come si pronuncia, come mi capita quando sto parlando di calcio con uno che mi spiega che sì, d’accordo, il campionato, ma vuoi mettere la cempions? Anche perché è più difficile da vincere, la ciamps, basta una serata storta e tanti saluti. Ci vuole esperienza, per giocare in scians lig – e adesso vediamo, con sti ragazzini che abbiamo vinto quella specie di ciamps lig dei giovani, come si chiama, la necs generescion.
            E io, siccome ho sempre paura di esagerare da una parte o dall’altra, per non sembrare uno snob va a finire che dico coppa dei campioni, e faccio la figura dello snob.
            Oppure, più di rado, decido di dirlo in inglese, e allora è capace che mi viene fuori un accento assurdo – tipo scozzese, o indiano. Così il tizio che ho di fronte pensa ma guarda te questo, che gli danno anche dei soldi per insegnare l’INGLESE.
            Insomma, arriverò a parlare della Champions League, della tripletta (maledetto snob), del Tizio Speciale (arcisnob dei miei stivali), del Principe Milito (snobbino), di Balotelli, di Eto’o, dell’irrigazione del Camp Nou e compagnia bella. Non subito, però. Prima bisogna che spieghi perché della Champions League, della tripletta, del Tizio Speciale, di Milito, Balotelli e compagnia bella me ne frega il giusto. E capisco che ciò può sembrare in contraddizione con il fatto che quando Bojan ha segnato il gol che credevo eliminasse l’Inter, nella semifinale di ritorno del 2010 – e prima di capire che il gol era stato annullato – ho creduto di essere morto, e tutto sommato mi sembrava una condizione invidiabile rispetto a quella di tutti gli altri interisti vivi. Può sembrare in contraddizione, ma non lo è.
            Per capire perché il mio scarso interesse per la Champions League e il mio desiderio di morte per il timore di aver perso la Champions League del 2010 sono in contraddizione solo apparente, devo fare riferimento – nello spirito cartesiano tipico di questa rubrica – a una foto della cui esistenza non sono sicuro, che in ogni caso non ricordo bene, e che forse, e sottolineo forse, ho visto in un libro che non trovo più da nessuna parte. Avendo la memoria fatta di sottilette, non c’è speranza di cavarne qualcosa di più con uno sforzo razionale – anzi, con il surriscaldamento c’è caso che si sciolga del tutto. Per cui forse la procedura migliore è impressionistica e un po’ magica – farò finta di non conoscermi per leggermi nel pensiero da solo. E già che ci sono: in un posticino fresco, per via delle sottilette.
            Allora: c’è una gran nebbia, qui nella cella frigorifera, ma provo a distinguere qualcosa lo stesso. Parto dalla foto, dai particolari.
            Vedo Jair che corre verso l’obiettivo – o forse è fermo, nemmeno corre. Di sicuro è rivolto verso l’obiettivo e se ne sta in piedi in posa plastica, con le ginocchia lievemente flesse. A pensarci bene, se è rivolto verso l’obiettivo dev’essere vicino alla linea laterale o a quella di fondo. Difesa, attacco? Chi può dirlo – non vedo didascalie, forse non ce ne sono.
            Di sicuro c’è la neve. A meno che la foto non sia molto sgranata. Ma no, c’è di sicuro la neve. Nevica. Neve per aria, neve per terra. Un ragazzo brasiliano dalla pelle scura che se ne sta in mezzo alla neve con la palla fra i piedi. La palla è di un colore pastello, quasi non si vede. Perché nessuno contrasta il ragazzo dalla pelle scura? Forse non è un’azione di gioco. Forse è una foto scattata prima della partita, o dopo. Ma se è così, la posa è molto strana.
            Niente. O non sono capace di leggere nel pensiero, o non sono capace di leggere i prodotti caseari. A questo punto, tanto vale che racconti quel che mi ricordo del libro dove credo o mi illudo di aver visto quella foto, e se qualcuno quel libro ce l’ha o se lo ricorda, forse può aiutarmi. O forse non può aiutarmi nessuno che non abbia almeno un paio di specializzazioni.
            Andò così. A inizio anni Ottanta, quando è successo tutto quello che doveva succedere, qualcuno – credo il mio zio interista, ma non è detto; poteva anche essere il mio babbo milanista in un momento ecumenico – mi regalò questo libro sulla storia dell’Inter. Era un libro grande, con la base più lunga dell’altezza. C’era tutto, dalla fondazione coi baffoni allo scudetto di Bersellini. C’erano le foto, e c’erano dei dischi a 33 giri con le cronache in diretta dell’epoca. Io a casa non avevo il giradischi – ricordo ancora i vinili abbandonati in garage come doppioni di reperti archeologici – per cui quei dischi me li sono ascoltati a casa del mio nonno materno, che nel giradischi ci metteva le arie d’opera, Castellina Pasi e una grande orchestra americana che swingava tutti i grandi successi del rock e del pop.
            C’erano gli inglesi coi baffoni e il sergente di ferro, in quel libro, ma io ricordo soprattutto gli anni Sessanta, perché ero nato nel 1972 e gli anni Sessanta mi facevano un effetto che potete capire solo leggendo questo dialogo fra la Paola e nostro figlio:

            ‘Mamma, ma chi sono gli antichi romani?’
            ‘Sono dei dadi che vivevano tanto tempo fa.’
            (Francesco ci pensa su.)
            ‘Negli anni Ottanta?’
            ‘Ancora prima.’

            E gli anni Sessanta, naturalmente, erano quelli della grande Inter, dell’Inter che conoscevano a memoria anche quelli che non erano dell’Inter. Sarti, Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso. Gli anni Sessanta erano gli anni dell’Inter e del Milan, di Mazzola e Rivera, dell’ultimo grande Bologna, di Gigi Meroni con una gallina al guinzaglio, del Manchester United di Busby, di George Best che spendeva soldi in bere, donne e macchine e gli altri li sperperava, di Londra che swingava altro che l’orchestra di mio nonno, della gente che si vestiva come gli pareva, del libero amore e dell’India e del sesso che, secondo Philip Larkin, cominciò esattamente nel 1963, fra la fine della messa al bando di Lady Chatterley e il primo album dei Beatles.
            Solo che questa è roba che ho orecchiato o studiato dopo, e quindi conta poco o nulla. Gli anni Sessanta, per me, sono solo quel libro che non trovo più. Quel libro e quella foto che non ricordo, con un ragazzo nero nella neve che chissà poi cosa faceva col pallone e perché nessuno lo marcava. E chissà cosa facevano i miei, all’epoca della foto. Andavano ancora alle superiori. Mio babbo l’avrà guardata, quella partita? Le davano, in televisione?
            Gli anni Sessanta, per me, sono un ragazzo scuro e un pallone pastello. Le voci sgranate di Carosio e di chissà chi altro. Partite che non durano novanta minuti ma pochi secondi, come trasmissioni interrotte da un temporale, lampi scuri nella neve. Quell’Inter, per me, non è una squadra di calcio che prende un aereo o un pullman per andare a giocarsi una partita di qualche coppa europea. È una banda di esploratori mandati alla ventura in qualche terra ancora inesplorata, di quelle che nella cartina sono bianche, e ci sono i leoni, i troll e i coboldi. È un giovane mercenario nero che scopre la neve! È un ragazzo gracile coi baffetti che taglia il campo a fettine senza curarsi delle conseguenze (Vasas-Inter 0-2 dell’8 dicembre 1966, giocata a Budapest, gol di Mazzola: sì, questa l’ho vista su youtube).
            Si può fare meglio di così?
            No, non si può fare meglio. Per cui, scusatemi, cosa volete che me ne freghi di Mourinho e di Milito? Sì, d’accordo, lo ammetto: quando Balotelli è entrato nella semifinale d’andata del 2010, col Barcellona, ero lì in piedi che gli urlavo di darsi una mossa come se potesse sentirmi: non vedeva che i suoi compagni stavano difendendo eroicamente il suolo patrio? Quando Bojan ha segnato il gol del 2-0, al ritorno, io mi sono buttato in avanti con un urlo strozzato, e finché non ho capito che l’avevano annullato sono rimasto lì, con la fronte sul pavimento, una cosa sola con la graniglia. Quando il Bayern attaccava, in finale, e quelli dell’Inter difendevano dopo aver segnato due gol senza nemmeno degnarsi di varcare il centrocampo, facendo affidamento solo sulla consapevolezza infondata della propria grandezza, io difendevo con loro, stringendo tutta una serie di muscoli innominabili per favorire ogni spaccata di Lucio e ogni colpo di testa di Samuel. Quando finalmente quella partita è finita, io mi sono sentito patriota della nazione nerazzurra, e se Mourinho mi avesse ordinato di invadere la Libia, l’avrei fatto senza esitazioni. Altro che scatolone di sabbia!
            Ma era comunque un’altra cosa. Perché anche nell’atto di imbucare la mia dichiarazione di guerra al povero Gheddafi, sarei stato comunque consapevole del fatto che Mourinho era un paraculo di successo, che la vittoria non aveva niente di leggendario e inevitabile, e che il gioco di quella che di lì in poi sarebbe passata per una grandissima squadra – anche ai propri stessi occhi – era improntato a quello di noialtri, da piccoli, quando si giocava con i ragazzini di due o tre anni più grandi. Tutti dietro, calci negli stinchi e viva il parroco.
            Come si fa a paragonare una cosa del genere a una foto che ritrae un ragazzo nero nella neve? La Coppa dei Campioni 2009-2010 è una sequela di partite di calcio, molte giocate anche maluccio. La Coppa dei Campioni 1966-1967, per dire (quella di Vasas-Inter 0-2), è una spedizione antartica. Che importa se la spedizione antartica non è andata a buon fine? Vogliamo parlare di Scott e Amundsen?
            Scherzi della memoria, direte voi – scherzi del formaggio compattato, li chiamerei io – e lo direte soprattutto se siete nati negli anni Cinquanta e quel mondo l’avete visto in diretta e a colori. Inganni del color seppia. Il vecchio che ti sembra meglio e invece è solo vecchio.
            E avete ragione. È proprio così. Come ho già detto altrove, bisogna guardare in faccia le cose. E allora beccatevi quest’altra foto – questa ce l’ho sotto gli occhi, non è uno scherzo della memoria. Fatevi un bel salto all’indietro anche voi, e vediamo come ne uscite.
            È così: c’è un signore vestito da calcio inginocchiato davanti a un bambino vestito da calcio. Il bambino è in piedi. Il signore ha l’aria concentrata – sta legando qualcosa, forse un laccetto, intorno al calzettone del bambino, appena sotto il ginocchio. Il bambino si guarda il ginocchio. Il signore è magro ma poderoso, il bambino è gracile. Sono su un prato. Sullo sfondo ci sono una siepe, un albero, una ringhiera e due case viste di profilo. Si intravede un terrazzo. La linea che separa l’ombra dal sole taglia di due terzi una finestra al secondo piano. La finestra ha le imposte chiuse.
            Il signore è Valentino Mazzola. Il bambino è suo figlio Sandro.
            E Sandro Mazzola, a suo padre Valentino, non gli ha mai visto giocare né la Coppa dei Campioni né la Champions League.