domenica 26 febbraio 2012

2. la memoria in una teca (nera e blu)

24 gennaio 1982: Ascoli-Inter 2-2

    Ma com’è che comincia?
    So già come va a finire, o perlomeno ho la sensazione che non sarà né in gloria né in grandiosa tragedia. Né una coppa dei campioni vinta, per dire (ogni interista adulto che si rispetti passa i mesi di febbraio e marzo a chiedersi se ne vedrà mai un’altra), né un disastro colossale e farsesco come il 5 maggio del 2002. O forse sì: forse la fine è una partita non giocata per niente da undici dopolavoristi tremebondi, seguita da una corsa in macchina perché la tua morosa deve proprio prendere quel treno lì, non può assolutamente aspettare quello dopo (e per che cosa? Per arrivare a casa dei suoi all’ora di cena? Ma per favore). Ma la macchina rimane imbottigliata in mezzo ai tifosi avversari bercianti, e allora vedi un tram e ci sali al volo, mollando lì la morosa con la sua nostalgia del pollo di mamma, poi ti sembra di vedere sul marciapiede una tua ex morosa insciarpata di nerazzurro che non ti avrebbe mai costretto a metterti in macchina per andare in stazione in un giorno del genere, e allora costringi l’autista a fermarti, acceleri il passo per raggiungerla, senti una fitta al petto, decidi di ignorarla, ti ride in faccia uno juventino che conosci di vista e ti stronca un infarto.
    In effetti potrebbe davvero finire così – bisogna che mi ricordi di non uscire di casa quando sto per morire.
    Ma se so già come va a finire, o se so già che tutte le mie paure prenderanno forma oppure non prenderanno forma ma scoprirò che una mezza consolazione è anche peggio di nessuna consolazione (ma vista la squadra, è meno probabile), il problema rimane.
    Com’è che comincia?
    Dove, soprattutto? Per causa di chi o di cosa? Per aver acceso la radio o la tv proprio in quel momento, su uno Scusa Ameri statisticamente minoritario? Per via del cugino interista? Di uno scudetto appena vinto dopo nove anni? Del padre milanista? Del Milan in serie B? Di Beccalossi? Altobelli? (No: Altobelli, a pensarci, mi sento di escluderlo. Ma ecco, mi tocca procedere così, per prove ed errori: Beccalossi, Altobelli. E sbagliavano rigori entrambi.)
    C’è da fare una premessa non calcistica: io non ho memoria. Cioè, mi ricordo benissimo il pin del bancomat e la password del mio account e-mail, e anche, nelle giornate di buona forma, quell’articolo del 1972 di J.S. Holmes (ma basato su un intervento a un convegno dell’anno precedente) che sta alla base della traduttologia letteraria contemporanea e disegna una mappa della disciplina con tutte le sue derivazioni esistenti e possibili – ma non mi ricordo quasi niente di quello che mi è passato davanti al naso fra il 4 novembre 1972 e, al momento, il 25 febbraio del 2012. E soprattutto non mi ricordo quasi niente, o quasi niente con precisione, di quello che mi è passato davanti al naso fra il 4 novembre 1972 e, diciamo, il 28 maggio 1989. Mi ricordo il mio naso, perché è cresciuto troppo e prima del resto del corpo, e la cosa fra i dodici e i quindici anni mi ha dato un certo fastidio: ma di ciò che si trovava al di là di quel simpatico confine della mia faccia, a meno che non fosse lo specchio, poco o niente. La faccia misteriosamente consolante di Paolo Valenti. Un gol in contropiede di Muraro contro l’Austria Vienna. Mio nonno che tiene per mano un me stesso di tre anni circa. O forse – chi può dirlo? – una foto in cui mio nonno tiene per mano un bambino tondo e ancora biondo che per sentito dire chiamo me stesso.
    Quando ero bambino e poi ragazzino, maestre e professoresse dicevano ai miei (e ai genitori di altri miliardi di bambini) che ero intelligente, ma non mi applicavo. Oppure che ero intelligente, ma avevo un po’ la testa fra le nuvole. Ora, quell’espressione serviva probabilmente a riassumere interi e ripetuti grappoli di minuti passati da quel bambino biondo, come da tanti altri, a guardare gli alberi fuori dalla finestra. Magari con un’espressione sognante e contemplativa, specchio di chissà quali profondità d’animo ancora inespresse. In realtà, per quel che ricordo (e visto che il punto è proprio che ricordo pochissimo, qui si comincia a entrare in una vertigine postmoderna di ignoranza), passavo quel tempo non a guardare alberi o farfalle – che non vedevo nemmeno, a meno che le seconde non mi si posassero sul naso – ma a immaginare le partite in cui avrei cambiato per sempre le sorti del campionato italiano, o a mandare a memoria risultati e classifiche in vista di miracolose risalite primaverili di una certa squadra a strisce nere e blu. Se – invece di giustificarmi con i loro cliché da udienze – quelle maestre e quelle professoresse mi avessero preso per un orecchio e mi avessero detto: lo vedi quello? Quello è un acero – ha le foglie fatte così e così. Se lo guardi per bene sfuggirai a un destino di adulto che non distingue un acero da una quercia, e che se deve mettere in bocca a una maestra un commento sulle foglie d’acero dice che sono fatte così e così. Se mi avessero trattato in questo modo, credo che adesso avrei qualche ricordo in più. Avrei guardato l’albero. Avrei ascoltato mia mamma che mi parlava di qualche sua collega che aveva fatto qualche cosa riguardo a un suo qualche figlio. Mi ricorderei il sapore delle cotolette che la mia nonna materna, con zelo che nessun vegetariano militante saprebbe eguagliare, ci cucinava ogni santo giorno o giù di lì. E invece no: la faccia di Paolo Valenti – misteriosamente consolante – e un gol di Carletto Muraro in contropiede con l’Austria Vienna, su lancio di quaranta metri di Beccalossi. Almeno così me lo ricordo io, quel lancio. Ci sarà di sicuro su Youtube. Non ho il coraggio di guardare.
    Dal momento che nessuno mi ha mai preso per un orecchio per farmi guardare un acero (perlomeno, non che ricordi), ho passato buona parte dell’infanzia e della prima adolescenza a immaginare grandi vittorie mie o dell’Inter, e il resto dell’adolescenza a sognare grandi conquiste femminili che curiosamente sembravano essere altrettanto sfuggenti (e sarà stato un caso che l’amico con cui andavo più spesso a caccia fosse interista?). Per questo non mi ricordo gli aceri, se erano aceri. Ricordo poche facce. Ricordo pochissime voci, e soprattutto pochissime parole dette. Ho un solo ricordo, e piuttosto sospetto, dei miei tre anni di asilo. Nessuno della scuola materna. Me e mio nonno a tre anni in un ricordo fotografico che forse è solo una fotografia. Mia nonna che metteva il brodo a raffreddare sul davanzale. In montagna c’era un bambino che si chiamava Massimiliano come me, ed era di Ascoli: che faccia aveva? Quanti anni avevamo? Siamo sicuri che era di Ascoli? O non era magari Ancona? Perché non sono mai stato ad Ascoli? Ne vale la pena, di andare ad Ascoli? Ancona l’ho vista con la Paola, ci ha fatto un po’ tristezza. E quanti anni avevo quando, giocando con una bambina di un anno o due più piccola, sono saltato giù da una sedia e ho sentito un brivido dalle parti dell’inguine, così piacevole che ho convinto la bambina a saltare e risaltare dalla sedia con me senza mai ritrovare lo stesso piacere? (Se questo vi fa affiorare alla mente parallelismi con la vita adulta, ricacciateli indietro: è meglio, ve lo dico per esperienza.) E come si chiamava, quella bambina? Che faccia aveva? Che capelli aveva? Se dovessi scrivere un dialogo fra me e lei, riuscirei a trovare le parole giuste senza inventarmele di sana pianta?
    ‘Lo facciamo ancora?’
    ‘Dai!’
    ‘Vai prima te!’
    ‘No, prima te!’
    ‘Voglio ricordarmi questo dialogo per inserirlo in un blog quando sarò grande.’
    ‘Ma in questo caso, non trovi che ci esprimiamo in maniera un po’ troppo articolata? Dopo diventa difficile, evitare i parallelismi con la vita adulta.’
    ‘Può darsi. Ma tieni presente che il momento d'oro del realismo mimetico è passato da un pezzo.’
    E invece, almeno dai sette-otto anni in su, ho un sacco di ricordi di cose sentite da una scatola e viste dietro a un vetro convesso. Con il vantaggio, rispetto ai ricordi “veri” (se questo aggettivo ha un senso), che questi ricordi hanno delle appendici negli almanacchi e su rete che le mie vaghe rimembranze di mio nonno, purtroppo, non hanno. (Io a volte ce l’ho, questa illusione: digitare “il nonno mi trascinava col tappeto in corridoio” su google, mettere immagini e trovarci la faccia buona del mio nonno paterno, lo sguardo un po’ storto con l’occhio di vetro.) Quindi quei ricordi non sono più forti solo perché quando si trasformavano in passato o in futuro si mangiavano il pane appena sfornato del presente, ma anche perché si trascinano dietro code ufficiali e verificabili. Dunque, se penso a quell’Ascoli-Inter del mio secondo campionato (credo) da interista, a quella partita che mi aveva gettato nella più cupa disperazione nel momento in cui l’Ascoli era passato sul 2-0, e poi mi aveva fatto tornare a una sembianza di vita quando l’Inter aveva pareggiato segnando due gol negli ultimi due minuti, ci metto qualche istante a cercarla su internet e a scoprire che questo risultato fra le due squadre, nei campionati a girone unico, si è verificato una volta sola, nel torneo 1981-82, campionato vinto naturalmente dalla Juventus (il calcio è uno sport che si gioca undici contro undici, e alla fine vincono i tedeschi) e in cui l’Inter è arrivata quinta, ma ha vinto la Coppa Italia. Il 24 gennaio 1982. Ho nove anni, due mesi e venti giorni. E fin qui, fino alla definizione giuridico-burocratica della mia personcina che segue in qualche modo la partita e del contesto esterno più generale, nessun problema. Ma basta che io cerchi di entrare nella stanza in cui quella personcina sta seguendo la partita, e si alza la nebbia. È inverno e ci dev’essere un fiume, nella parte del mio cervello deputata alla conservazione dei ricordi.
    Dunque: credo di essere nella camera degli ospiti dei miei nonni paterni – ma non ho ricordi di mio nonno, quel giorno, eppure fino al 1983 è ancora vivo. Quindi, in realtà, forse sono a casa mia. A inizio 1982 ci siamo già spostati nella villetta a schiera in cui i miei vivono ancora? No – la finale del mondiale di Spagna l’ho vista nell’appartamento di prima. Ad ogni modo, poniamo che io sia nella camera degli ospiti dei miei nonni paterni, che poi è la camera delle bambole di mia nonna, perché i nonni per definizione non hanno ospiti. C’è un singolo letto, forse una poltrona, e io potrei essere sulla poltrona, con un piede sempre appoggiato a terra o entrambi i piedi sempre sollevati da terra perché forse, se non cambio mai posizione, l’Inter vincerà. La partita la sto ascoltando alla radio – Tutto il calcio minuto per minuto, ovviamente. Ameri, Ciotti e tutti gli altri cospiratori che fanno sempre vincere la Juventus. Con me ci sono le bambole, attonite di trovarsi proprio in quella stanza, su quei centrini, con un bambino la cui preoccupazione maggiore sembra essere quella di tenere sempre i piedi nella stessa identica posizione. L’Ascoli va due a zero in un amen. Chi segna? Non so, non importa: i giocatori dell’Ascoli sono ombre, anonime incarnazioni delle forze del male. Servi di Sauron, l’occhio bianconero senza ciglia ma con l’orologio sopra il polsino della camicia. Sarà contento il mio amico omonimo di Ascoli? Non so, non ci penso, e non so nemmeno se l’ho già conosciuto o lo devo ancora conoscere. E poi magari era di Ancona, e in ogni caso in questo momento lo venderei ai mostri di cui ho paura la notte pur di vincere la partita. Provo una diversa posizione dei piedi – e alla fine funziona, perché l’Inter in un soffio pareggia. Chi segna? Non lo so – Altobelli, Beccalossi. Segnano sempre loro.
    E invece no. Bagni e Bergomi, dice internet. Per l’Ascoli, doppietta di Pircher (e chi è? Uomo, orco, elfo oscuro?). E per di più Bagni e Bergomi, che non sapevo nemmeno giocassero già nell’Inter, segnano al settantaquattresimo e al novantesimo. Quindi a sedici minuti di distanza, non in un soffio miracoloso dovuto a corretto posizionamento podologico. E quindi, forse, quel bambino di nove anni non è nemmeno nella camera degli ospiti dei suoi nonni paterni, con le bambole di sua nonna sui centrini. E c’è una sola cosa, secondo me, che è persino più triste di soffrire da soli a nove anni per una partita di calcio sentita alla radio in una stanza piena di bambole dalle lunghe sopracciglia: non esserne nemmeno sicuri.
    Magari, se cerco su Google images, le bambole almeno le trovo.

sabato 18 febbraio 2012

1. incipit: enter ghost

17 febbraio 2012: Inter-Bologna 0-3

La morte me la immagino come una partita dell’Inter. Non una partita vista dal vivo, allo stadio, e nemmeno in televisione. La morte me la immagino come una partita di cui segui solo il risultato, magari su un sito internet, alla pagina 220 del televideo, o peggio ancora, accendendo ogni tanto la televisione su quel canale dove c’è un tifoso del Milan, uno della Juventus e uno dell’Inter – come nelle barzellette – e ovviamente quello dell’Inter è un nevrastenico segaligno con la faccia scavata dalla tensione. Accendi la tv a volume zero – sei molto malato, e se qualcuno gridasse lo shock potrebbe ucciderti – e già vedi il segaligno che scuote la testa, anche se sta zero a zero. Ma ti dici: d’accordo, è normale, è lui che è fatto così. È carattere: io posso migliorare, non sono come lui, non sono così malato. Anzi, mi sento già meglio. Non ho bisogno delle medicine. Vado a farmi un giro, e chissenefrega. Adesso spengo la televisione e guardo il risultato solo alle dieci e quaranta, a partita finita. Tanto vinciamo.
    Ma subito dopo ti rendi conto dell’errore: non avresti dovuto usare la prima persona plurale. Già questo è un segno che le cose sono sul punto di virare verso la catastrofe. A questo punto, la cosa sensata da fare sarebbe spegnere davvero la televisione, e non riaccenderla più fino al giorno dopo. Difatti la riaccendi, e cominci a controllare la pagina del televideo con frequenza crescente secondo una curva esponenziale (hai fatto il liceo scientifico con una professoressa di matematica nazista, in altri anni in cui l’Inter comunque vinceva poco o niente): una volta al minuto (due elevato allo zero), due volte al minuto (due alla prima), quattro volte (due alla seconda), tante volte quante il televideo riesce a ricaricare la pagina (due alla enne).
    Tua moglie è di là che si fa la doccia, si veste, non sa nemmeno che sei malato. È bellissima, ma in questo momento se avesse il potere di far vincere l’Inter te la terresti anche deforme e butterata (fra l’altro quel potere ce l’avrebbe anche, volendo: ma di questo parlerò un’altra volta). Tuo figlio dorme: ti troverà cadavere domani mattina, e non saprà mai di che cosa sei morto. Visto che hai trentanove anni, si dirà: era molto vecchio.
    Sei solo: davanti alla morte sei solo, e il tuo cervello è occupato da un unico pensiero che non è nemmeno esattamente un pensiero. Guardi lo zero che sta a sinistra della pagina, cercando di convertirlo in uno per forza mesmerica. Magari ora l’arbitro butterà fuori tre giocatori del Bologna tutti insieme – undici contro otto te la potresti giocare con una certa tranquillità, questa partita. Se fossi in grado di ragionare, potresti dirti con un sorrisetto ironico che hai passato trent’anni della tua vita a imparare cose e a diventare una persona capace e raffinata, e non ti è servito a niente. Davanti a una partita dell’Inter, torni esattamente com’eri a nove anni.
    Ma non sei in grado di ragionare. Non sei in grado di sorridere, e in te non c’è nemmeno un briciolo di ironia. E in realtà non sei nemmeno come un bambino di nove anni. Sei un bambino di nove anni, ma senza la certezza che un giorno diventerai un grande calciatore e vincerai da solo tutte le partite dell’Inter. E già che ci sei, della Nazionale (formata, per l’occasione, da un blocco di nove giocatori dell’Inter, uno del Milan e uno della Juventus, questi ultimi in posizioni umili e ininfluenti; no, meglio un giocatore della Roma e uno della Fiorentina. Il Milan e la Juventus, del resto, occupano stabilmente le posizioni di metà classifica della Prima Categoria regionale).
    Badate bene, tifosi di tutte le altre squadre. Penserete che tutto questo non vi riguarda, che solo noi Interisti (e forse, che so, i tifosi dell’Arsenal) siamo così sfigati. È un errore. Anche voi avete la pelle di un tifoso dell’Inter – solo che vi ci siete messi sopra una maglietta colorata. Anche a voi, un giorno inatteso, capiterà una cosa di questo genere: vostra moglie vi chiamerà per chiedervi un favore, voi vi alzerete sbuffando, e qualche secondo dopo, tornando davanti alla TV con simulata indifferenza, scoprirete dalla pagina del televideo che il Bologna è avanti 1-0. A questo punto uscirete dalla pagina del televideo per vedere come ha reagito il nevrastenico, e scoprirete che in realtà sta già 2-0 – due gol in tre minuti, ma il televideo ha un leggero ritardo rispetto alla realtà – e il nevrastenico ha tirato indietro il petto e avanti la testa, e ormai più che scuoterla la fa ondeggiare come se nello studio televisivo si fosse alzato un vento non forte ma gelido. Respingendo la tentazione di scagliare il telecomando contro il televisore (sarebbe come staccare la spina dell’alimentazione artificiale: in ogni caso, non ne avete la forza), vi limiterete a usarlo per spegnere e ad alzarvi per dire a vostra moglie, con voce virilmente querula, che quella stramaledetta squadra sta perdendo in casa anche contro il Bologna, e che ormai è festa per tutti. Poi passerete i tre quarti d’ora seguenti pensando, a fasi alterne e più o meno equivalenti sul piano temporale, alla sorte schifosa che vi ha fatto scegliere proprio quella squadra, fra tutte quelle che c’erano (quanto sarebbe bello, tenere per il Pescara?), e alla possibilità che Pazzini abbia accorciato le distanze, Nagatomo abbia pareggiato con un colpo di testa in tuffo e Alvarez abbia segnato il gol della vittoria con un sinistro da fuori al quinto minuto di recupero. Ma poi vi verrà in mente che Alvarez in realtà è infortunato, e allora, in preda all’ansia, andrete ad accendere il televideo per vedere chi l’ha fatto, il gol della vittoria. E scoprirete che il Bologna ha segnato ancora. A cinque minuti dalla fine.
    Il tifoso della Juventus o del Milan, rispetto al tifoso dell’Inter, ha solo il vantaggio dell’illusione. Siccome è abituato così, pensa che le cose prima o poi si raddrizzeranno. E quindi è fortunato, che Dio lo stramaledica. Morirà col sorriso sulle labbra, credendosi immortale.
    Vi odierei tutti, se non sapessi che i vostri muscoli, le vostre ossa, i vostri organi interni sono nerazzurri quanto i miei.
    Il punto vero, tanto vale tirarlo fuori subito, è che ho quasi quarant’anni. Ne faccio quaranta a inizio novembre (chiedetevi perché ho pensieri di morte). Una volta ho detto a uno che, come me, fa canzoni , che per scrivere veramente bene bisogna tirare fuori il peggio di noi, le cose che ci fanno stare male e allo stesso tempo ci fanno vergognare. Le cose che ci ripiombano nei corpi dei bambini disperati e ridicoli che eravamo. Solo ora mi rendo conto che neanch’io l’ho mai fatto fino in fondo, e che per potermi mondare davvero e guardare le cose dall’alto come un’aquila (senza pensare alla Lazio e al 5 maggio 2002, naturalmente) devo tirare fuori i due mostri più schifosi e grotteschi che ho in corpo. La morte e l’Inter.
    Ma più l’Inter, se devo davvero essere onesto.
    Dimenticavo: non è che finisce così, come accendere e spegnere un televisore. C’è da soffrire, come direbbe Pizzul, e se sei dell’Inter ci sei abituato (un’altra fregatura: sai che bel vantaggio, esserci abituato). Spegni la televisione indignato, ti fai consolare da tua moglie (una volta avevi una donna che diceva cose come “in fondo è solo un gioco”, ma per fortuna l’hai lasciata), e insieme decidete di guardarvi una puntata di Friends al computer, perché in fondo è meglio distrarsi, no? Ma il computer, appena acceso, ti informa che deve caricare tredici aggiornamenti. Tredici. Ci mette un’eternità – durante la quale tua moglie legge, mentre tu fingi di farlo e fantastichi sui modi implausibili in cui si possono segnare quattro gol in cinque minuti. L’undicesimo, il dodicesimo e il tredicesimo aggiornamento sembrano particolarmente pesanti, come se il pc dovesse assorbire pagine e pagine di notizie sul calciomercato in entrata dell’Inter. Infine si spegne, senza aver caricato il sistema operativo. Ma non è ancora fatta: a premere un tasto si riaccende, come un malato ringalluzzito prima del tracollo, solo che prima di arrivare al sistema operativo sostiene di dover installare ventiseimila e rotti aggiornamenti (giuro, non sto inventando niente: tredici per due elevato alla prima per dieci elevato alla terza). Finalmente è tutto pronto. La puntata di Friends (prima serie) è quella sulla nonna di Ross e Monica che muore due volte (ma lo fa apposta, l’universo?). Inserisci il cavo delle cuffie, pronto a condividere gli auricolari con tua moglie come al solito (l’audio in uscita del pc è troppo basso), e quando parte la puntata scopri che il tuo auricolare produce solo un ronzio indistinto.
    Chiedi conferma a tua moglie. No, non è la puntata di Friends. È solo il tuo auricolare.
    Ti alzi smadonnando in cerca di un altro paio di auricolari. Ma prima ti cade l’occhio sul punto in cui il pc ti dice la data e l’ora, e ti rendi conto che è venerdì diciassette febbraio. Venerdì diciassette febbraio, maledizione. E tu non sei superstizioso, tranne che per tutto ciò che ha a che fare con l’Inter. E con la morte.Tredici aggiornamenti, tredici per due alla prima per dieci alla terza file installati, venerdì diciassette febbraio. Tre a zero per il Bologna, a meno che non ne abbiano fatto un altro. E a sabato diciotto manca ancora un’ora buona.
    Mentre cerchi invano gli auricolari, ti chiedi con una certa curiosità che funerale ti faranno. E già che ci sei, chi chiameranno come allenatore dell’Inter. Ma poi ti ricordi che non sei davvero morto. È solo che quando morirai sarà più o meno così, e sei sicuro, sicuro, sicuro che sarà un momento in cui l’Inter va di merda.
    Alla fine Friends riesci a vederlo, ed è una puntata così così.