sabato 24 marzo 2012

4. Bagni e Juary contro i servi di Sauron

27 marzo 1983: Genoa-Inter 2-3

‘Guarda, c’è l’Interista!’
‘Ehi, Interista!’
‘Vieni a giocare, Interista?’
‘Avete perso ancora, Interista!’
‘L’Inter fa schifo, Interista!’
‘Ammettilo che l’Inter fa schifo, Interista!’
‘La Juve ha vinto, Interista!’
‘La Juve è forte, Interista!’
‘Non vincerete mai, Interista!’

Ora, io non sono sicuro che qualcuno mi abbia apostrofato davvero in tutti questi modi diversi – ma so per certo che al secondo quadrimestre della prima media, e quindi durante la stagione calcistica 1982-83, i compagni di scuola che mi conoscevano mi chiamavano ‘l’Interista’, con l’articolo determinativo e un’inconfondibile maiuscola nella voce. Credo che molti miei coetanei, alla Marino Moretti di Forlì, non sapessero nemmeno come mi chiamavo (del resto, come mi chiamo non lo saprebbe nessuno neanche adesso, se non fosse per facebook). In compenso, anche quelli che non sapevano il mio nome mi chiamavano spesso: in un certo senso ero molto popolare, anche se ci sono generi di popolarità ai quali preferisco un lieve attacco di malaria.

Cos’era successo? Evidentemente mi ero lasciato sfuggire, in un momento di debolezza o di illusoria baldanza nerazzurra (eravamo terzi dopo tre giornate? Avevamo passato un turno di Coppa Italia ai rigori con la Cremonese?), che tenevo per l’Inter. Soprattutto, me l’ero lasciato sfuggire non solo con i miei compagni di classe (lì qualche alleato ce l’avevo), ma anche con i bambini che giocavano a calciolattina con me. I miei, che timbravano il cartellino sul presto, mi lasciavano a scuola almeno venti minuti prima della campanella, e io passavo quei venti minuti a fare partitelle con una lattina al posto del pallone – o una pallina da tennis quando andava di lusso – nel cortiletto davanti al cinema Odeon, allora denominato Godeon per via della programmazione porno. Come notazione di passaggio, potrà interessarvi sapere che uno dei giocatori di calciolattina si presentava sempre con delle lastre di piadina unta che gli invidiavo molto – ma può darsi anche che questo interessi più che altro a me, che sto scrivendo a stomaco vuoto. Molto più rilevante, invece, è il fatto che tutti i miei compagni di calciolattina erano juventini.

A dire il vero, almeno per come me la ricordo io, anche la mia classe brulicava di juventini, e il resto della scuola era un formicaio di juventini (ok – ora torno a metafore più neutrali). Il mondo intero era un verminaio di juventini (ok – non ci riesco), molto più di adesso. E se devo dare una rappresentazione credibile di com’era fatto, quel mondo, in termini perfettamente manichei (che sono poi gli unici termini in cui comprendiamo il calcio): c’erano gli juventini e c’erano gli interisti. Dal punto di vista degli juventini, gli interisti erano sfigati da prendere per il culo. Dal punto di vista degli interisti, gli juventini erano ladri di cui smontare con cura ogni singola vittoria. Di sicuro, gli juventini erano moltissimi e gli interisti erano pochi, mentre i milanisti sembravano non esistere (e forse non esistevano: forse tutti i milanisti della mia età che sono sbucati fuori negli anni Novanta sono marziani che hanno rubato il corpo ai terrestri addormentati, sbarcati sulla terra da un presidente del Milan che a pensarci, in effetti, come marziano sarebbe anche un bel ragazzo). Gli juventini erano molti di più degli interisti perché nel calcio, come in politica, gli ignavi stanno sempre per il più forte. Insomma, il mondo era un immenso complotto ai danni di noi pochi ma buoni – e se mi state immaginando con la bava alla bocca, credo dipenda sempre dal fatto che sto scrivendo a stomaco vuoto.

Naturalmente, oggi sono perfettamente in grado di scrivere con distacco di queste cose, e non ho più la stessa visione manichea della vita. Oggi so benissimo, per esempio, che la Juve non ha rubato proprio tutto quello che ha vinto – sulla Coppa Italia del 1938, per esempio, credo non ci siano ombre, se non per il fatto che Borel II era stato visto mangiare una bagnacauda con l’arbitro poche ore prima della finale. Ma insomma, erano altri tempi, ed è forse sbagliato fraternizzare con il direttore di gara, nel primigenio spirito decoubertiniano dello sport? E importa veramente stabilire se Borel II ha pagato il conto? Ormai sono anche in grado di accettare il fatto che molti juventini sono persone intelligenti – certo, è un fatto che accetto solo sul piano razionale, e rimangono intelligenti solo finché non si parla di calcio. Per non dire di Moggi. Ma qualcosa dev’essere andato storto fra l’inizio e la fine di questo capoverso, per cui sarà meglio che riformuli un po’ tutto.

Parto da me stesso, lasciando perdere gli juventini. Dall’inizio, come al solito. Da un bambino che vuole sempre aver ragione, anche quando ha torto. Mia madre, che ricorda troppe cose per i miei gusti, sostiene che questa era la nostra conversazione tipo:

‘Cosa c’è scritto qui?’
‘Topastro.’
‘Non è vero.’
‘Come, non è vero?’
‘Non è vero!’
‘Va bene, non è vero.’

Fin qui, niente di particolarmente strano. Tutti i bambini vogliono sempre aver ragione. Molti maschi alfa mantengono questo tratto caratteriale anche da grandi – soprattutto se avevano madri che al secondo giro gli davano ragione – e alcuni di loro studiano parecchio in modo da avere spesso ragione. E aver ragione non significa solo essere nel giusto: significa anche essere dalla parte dei buoni, dei giusti, dei vincitori buoni e giusti. Significa aver ragione del mondo. Mr Tulliver, il padre di Maggie in The Mill on the Floss di quel genio di George Eliot (che è una femmina, ma non c’entra, credo), dice molte volte ‘The world’s been too many for me,’ ‘Il mondo mi ha preso in troppi,’ più o meno. È il suo modo per ammettere che non ha avuto ragione del mondo, ma solo perché l’hanno circondato. Come in una canzone di Gaber in cui il tizio picchiato e derubato dice di essersi difeso bene, e chissà quanti erano.

Ma il desiderio di avere ragione del mondo diventa autolesionista, e tutto sommato patologico, quando si incrocia con un’altra pulsione umana che vorrei non avere mai avuto, e che invece mi domina da sempre e mi spinge tuttora a votare centrosinistra tutte le volte che posso. L’amore per i vinti, il desiderio che Davide faccia fuori Golia. Ora, io credo di aver cominciato a tenere all’Inter anche per via del campionato 1979-80. Ma poi non avrei perseverato, se fossi stato meno davidista e più goliardico – ammesso che sia questo l’uso giusto dell’aggettivo. O forse è proprio l’Inter che mi ha stampato nel DNA questo tratto caratteriale – e poi, negli anni, via di Boston Celtics quando vincono i Lakers, via di Fortitudo quando domina la Virtus, eccetera eccetera eccetera. E il peggio è che non mi accontento di tifare per i più deboli – cerco anche di sostenere che il mio tifo è giusto con adeguate argomentazioni, determinato come sono ad avere ragione del mondo che, lasciate che ve lo faccia presente, mi ha fregato solo perché mi ha preso in troppi.

Ma c’è da dire la Juve, molto più dei Lakers o della Virtus, è il bersaglio perfetto per il davidista polemico. La Juve sono in troppi davvero. La Juve ha una serie di scandali alle spalle che comincia dalla corte di Lorenzo il Magnifico, e che ogni interista non goliardico (ce ne sono anche di goliardici, ma è di nuovo un ossimoro) sa recitare non a memoria, ma confusamente e sputazzando date a caso in numero maggiore di quante il cervello umano possa comprenderne, come giochi di parole di Bergonzoni. L’invasione di campo del Uessantuno, cos’era, Uessantadue? La papera di Sarti che poi l’avete comprato, saran stati tre uattr’anni dopo. E la fatal Verona e la Roma che si fa rimontare in casa, hai presente? Eh, ma te la storia non la sai mica. Cos’era, aspetta – e poi lo scudetto che avete fregato al Toro nel Settantaué – voglio dire, nel Settantauéte, vogliamo parlarne? E il totonero? Cosa mi dici del Totonero, che dovevate andare in B anche voi e poi Boniperti ha portato una valigetta di soldi a coso, quello del Totonero, no? Ma sì, dai, quello con la faccia da delinquente. (Boh?) Che poi la Juve doveva già andarci un’altra volta, in B, subito prima della guerra, o subito dopo, adesso non mi ricordo, ma poi non c’è andata per via degli Agnelli. E lo scudetto che avete fregato alla Fiorentina? E il rigore di Brady, che alla Fiorentina le hanno annullato un gol grande come una casa? (E chi l’ha mai visto?) E Bagnoli che alla fine della partita di ritorno di Coppa dei Campioni 1985-86 dice ‘Se cercate i ladri, li trovate nell’altro spogliatoio’? E il gol di Turone? E il rigore di Ronaldo? E le ottanta giornate date a Ronaldo e a mezza Inter, dal massaggiatore all’ultimo Galante? E il gol annullato a Cannavaro? E Nedved che bastava che gli toccavano il ciuffo e gli davano tre rigori? E Kakà che si invola verso la porta e gli danno un fallo a favore dieci secondi dopo e trenta metri indietro? E le facce di Moggi, Giraudo e Bettega, per Dio – le facce di Moggi, Giraudo e Bettega?

No, dico, davvero: le facce di Moggi, Giraudo e Bettega?

E noi? Noi siamo i combattenti per la libertà. Noi siamo i partigiani, i ribelli della montagna. A morte la casa Savoia. Siamo i nemici di Sauron, costretti a tramare nell’ombra finché non avremo distrutto l’unico anello che incatena nell’oscurità nove fra designatori arbitrali e procuratori vari. Siamo perdenti ma virtuosi, saldi nella gloriosa fede che, per quanto ci abbia alquanto sbomballato i maroni negli anni passati in questa valle di lacrime, ci condurrà alla beatitudine di un Paradiso ove Suarez detiene le chiavi e Beccalossi tira i rigori in una porta di settantasette metri, senza portiere.

Noi siamo gli onesti, i virtuosi, gli inflessibili, i malmenati dai fascisti. Voi i gobbi, noi i Gobetti del calcio.

Tranne per qualche particolare che la nostra memoria selettiva ha prontamente accantonato, già in quegli allegri anni Ottanta di Juve e spalline.

Per esempio: Genoa-Inter, 27 marzo 1983. Una partita abbastanza inutile, in cui si prevede un pareggio. Ma Bagni, dopo un quarto d’ora di melina, segna il 2-3 all’ottantasettesimo. Nessuno festeggia. Beccalossi lo guarda in cagnesco. Dopo la partita, il direttore sportivo del Genoa, Giorgio Vitali, dice che gli interisti devono sapere che merde sono i loro giocatori. Pasquale Iachini, centrocampista sempre del Genoa, dice che evidentemente qualcuno non era stato avvisato. Due giornalisti del Giorno indagano sulla partita, e scoprono che nello spogliatoio dell’Inter è nata una rissa, con Bagni e Bini (l’autore del secondo gol) aggrediti dagli altri. Dopodiché quelli del Genoa minimizzano, dicono che li hanno capiti male. Dopodiché si apre un’inchiesta. Dopodiché Juary, giocatore dell’Inter discriminato per il colore della pelle (ma come – da simpaticoni come Beccalossi? Suvvia...), accetta di farsi intervistare e conferma la rissa nello spogliatoio. Dopodiché l’inchiesta va avanti, ma a un certo punto cambia il tizio che la conduce, e quello che la conduceva prima lo pensionano, mentre quello che la conduce dopo assolve tutti, il 2 giugno, per insufficienza di prove.

E quindi, caro il mio l’Interista? Questa come me la giustifichi, nel grande schema manicheo-bianco-nero-azzurro-davidista delle cose?

La realtà bisogna guardarla in faccia. Anche quando è spiacevole. Altrimenti non si cresce, non si diventa adulti. Non si combina mai niente di buono. Non si impara ad assumersi le proprie responsabilità. E se guardiamo dritta in faccia la realtà di quella partita, la realtà di un povero ragazzo dalla pelle scura che viene ghettizzato dai suoi compagni di squadra, di un altro ragazzo che vorrebbe giocarsi onestamente la partita ma non può perché i suoi compagni se la sono venduta e ci hanno scommesso su dei soldi, ci sono solo due parole che possono descrivere con esattezza tutto quanto, dalla prima all’ultima nefandezza.

Infiltrati juventini. Chiaro come il sole. Chiamo subito l’ufficio inchieste.

domenica 11 marzo 2012

3. La notte in cui tutte le vacche sono neroazzurre

14 settembre 1968: Arsenal-Stoke City 1-0 / 22 aprile 1981: Inter-Real Madrid 1-0
La notte in cui tutte le vacche sono neroazzurre

Dopo poche pagine di Fever Pitch, Nick Hornby racconta la sua iniziazione all’Arsenal. È il 1968, e i suoi genitori si sono appena separati. Il padre non vive nella stessa cittadina di provincia dove stanno la madre e i bambini, per cui quando va a trovarli è costretto a inventarsi posti in cui andare. Comincia una teoria di zoo e ristoranti di alberghi (bisogna leggere i racconti di William Trevor per immaginarsi la tristezza di quei ristoranti, o guardarsi almeno una puntata di Fawlty Towers, la serie TV di e con John Cleese: sono sicuro che esistono forme di cucina capaci di esaltare l’intimo grigiore degli alimenti), finché il signor Hornby non ha l’idea di portare il figlio maschio allo stadio. Al termine di una partita grigia quanto la cucina alberghiera inglese, l’Arsenal batte lo Stoke City 1-0, con un gol segnato su rigore, più precisamente sulla respinta del portiere. Di lì in poi, quel ragazzino un po’ apatico trova la sua ossessione dominante. Qualche anno dopo, Hornby si farà tutto il tragitto da Londra a Plymouth per vedere la partita di ritorno di un turno di coppa già deciso a favore dell’Arsenal all’andata.

Ora, io ho almeno due buoni motivi per invidiare Hornby, a parte il fatto che dai suoi libri hanno tratto dei film. Il primo, il più superficiale, è che avendo creato un genere (che poi non ha quasi più frequentato), questo tizio dalla testa tonda e dall’aria paciosa è il Platone della narrativa tifosa borghese: qualsiasi cosa ti venga in mente di scrivere, l’ha già scritta lui. Nei primi due capitoli di Fever Pitch c’è tutto quanto: la casualità futile della scelta, la memoria appaltata e confusa, l’ossessione dei numeri. Hornby ci dice che passa intere giornate a pensare all’Arsenal, e che deve far finta di no per non fare la figura del sociopatico (perché lui sa bene di essere sociopatico). Ci fa capire che l’Arsenal poteva essere il Tottenham, il Chelsea, il QPR, qualunque altra squadra di Londra: e forse sarebbe cambiato tutto, visto che le vittorie e le sconfitte dell’Arsenal scandiscono il ritmo della sua vita. Ammette che probabilmente quel gol contro lo Stoke non l’ha neanche visto, coperto com’era da migliaia di schiene e confuso dal frastuono – il gol che ha in mente, con ogni probabilità, è un’immagine televisiva, o una ricostruzione a posteriori fatta per sentito dire, o sulla base di una cronaca di giornale.

Dopo aver scritto i primi due capitoli sono andato a riguardarmelo, Fever Pitch, perchè sapevo che il mio modello era quello, e avevo già detto a tutti che rifacevo Hornby in modo più narrativo, autobiografico – e invece no, maledetta la sua testa tonda, l’ha già fatto lui e l’ha fatto meglio. Fever Pitch, quando non diventa un saggio sul calcio inglese, è il racconto di una vita e di un personaggio attraverso le partite dell’Arsenal. E la cosa che mi fa più rabbia è che non me lo ricordavo: pensavo di dirle io, quelle cose sulla memoria, sulla casualità e sui numeri. Magari non sono neanche vere: le ho solo lette lì, e credo di averle vissute.

Il mio secondo motivo di invidia, però, è più profondo e viscerale. Perché è vero che Hornby rimugina risultati e classifiche mentre si fa riprendere per le foto di copertina, è vero che anche lui sa quanto tutto questo sia futile e arbitrario: ma per la miseria, pensate al suo inizio e confrontatelo col mio. Lui va allo stadio, a Highbury – a Highbury, non allo stadio Morgagni di Forlì – a vedere l’Arsenal, una squadra che esibiva un gioco dalla bruttezza epica e orgogliosa. Ci va con suo padre, e Highbury diventa per anni l’unico posto dove possono stare senza sentirsi in prestito, la loro casa come padre e figlio. Non ricorda il gol, ma ricorda quella massa di schiene operaie e piccolo-borghesi con la loro rabbia e la loro frustrazione maschili, in quel mondo fatto solo di uomini e per uomini (la sorella, per esempio, è impensabile che vada allo stadio). Va alle medie e il calcio diventa subito un mezzo di socializzazione, e non – come nel mio caso – motivo di odio, feroce presa in giro e desiderio di rivalsa. A meno che non ci nasconda qualcosa, certo. E per carità – tutti nascondono qualcosa.

Ma io, anche nascondendo qualcosa – ed è chiaro che qualcosa lo nascondo, altrimenti non starei neanche a scrivere – che cosa ho avuto di tutto questo? Allo stadio a vedere l’Inter non ci sono mai andato. Ripeto: allo stadio a vedere l’Inter non ci sono mai andato. Neanche in amichevole (ho visto una volta il Milan a Bologna, in amichevole). Mi vergogno a dirlo, come quando gli studenti mi chiedono quanti anni sono stato in Inghilterra (la risposta è: mai più di un paio di settimane): so di essere un impostore. Ho amici forlivesi, per esempio, che vanno a San Siro tutte le volte che possono (oddio, si chiamerà ancora San Siro? Si può dire? È così che dicono quelli veri? Il “Meazza”? Con le virgolette?), che sono stati a Roma il cinque maggio 2005 (con la possibilità magari di portarsi a casa un pezzetto di Gresko come souvenir) e a Madrid poco meno di due anni fa (d’accordo, non mi ricordo la data esatta: un volgare impostore, ecco cosa sono. Divino Josè, perdonami, tu ti saresti studiato tutto prima di avvicinare le dita alla tastiera). Io niente, il 5 maggio 2005 ero davanti al televisore a casa di un amico e poco meno di due anni fa guardavo la TV in un albergo di Roma. Non ho nemmeno l’abbonamento a Sky o a quel che ci vuole per vedere le partite. Anzi, vedere le partite non mi piace neanche – soprattutto quelle dell’Inter. È quasi solo sofferenza senza costrutto. E giocare a calcio mi piace parecchio, ma guardarlo meno. Preferisco seguire il risultato sul televideo. Novanta minuti sono tantissimi. Secondo me le partite dovrebbero durare una ventina di minuti per tempo, con cinque minuti di intervallo. Oppure le si dovrebbe giocare direttamente sul televideo, con qualche generatore casuale di formazioni e risultati. Tanto a me non cambierebbe niente, e neanche a Ranieri.

Ma siccome intorno al 1981 il televideo non esisteva ancora, torno a chiedermi: com’è iniziata? Qual è la prima partita che ho visto? Dov’ero e con chi? Hornby magari non avrà visto il gol, ma sul dove e sul con chi non ci sono dubbi.

C’è di nuovo qualche forse, e ci sono molti ma. Forse la prima partita che ho visto è un’Inter-Real Madrid del 22 aprile 1981, semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni. Forse ero dai miei nonni paterni, di nuovo – come mai sono sempre dai miei nonni paterni, in questi primi ricordi calcistici? Forse c’erano i miei genitori, e di sicuro, se ero lì, c’erano i miei nonni. Forse mia nonna era in cucina, come sempre (come sempre nei miei ricordi. Avrà fatto altro, oltre a stare in cucina, ma io me la ricordo così: in cucina finché mio nonno era vivo, accigliata su una sedia, nel salotto di un’altra casa, dopo la morte di mio nonno. E fra l’altro mi vien da dire che non è giusto, questo ricordare le vite dei vecchi al contrario, partendo dalla morte e poi dalla vecchiaia, come se non fossero persone anche loro, ma solo vecchi). Forse mio nonno era lì vicino a me, e forse sorrideva (nelle foto sorride sempre, timidamente bonario. Ma porco cane, si sarà anche arrabbiato ogni tanto, no?). Forse anche mio padre era vicino a me.

Ma non sono sicuro che fosse casa dei miei nonni paterni. Ma non sono sicuro che la partita non fosse già finita, o non l’avessero giocata il giorno prima, e in questo caso ciò che mi ricordo è un qualche servizio di telegiornale con le riprese dell’unico gol di Bini. Ma se ero lì con i miei genitori, dov’era mia mamma, che nel ricordo non so collocare da nessuna parte? E mio fratello che aveva già quasi quattro anni e quindi parlava, e fra l’altro parlava moltissimo? E se c’era mio nonno: perché non mi ricordo che mi abbia detto neanche una parola? E già che ci siamo: perché nella mia testa non c’è il ricordo uditivo di una singola parola detta a me o ad altri, in quella o qualunque altra occasione, dal mio nonno paterno, che è morto nel 1983 proprio quando io ero al mare? Per esempio, sono sicuro che mio nonno mi ha detto, e poteva essere il 1980 o il 1981, che teneva per il Bologna (era dell’11): ma perché non mi ricordo la sua faccia mentre lo dice e la sua voce che lo dice?

Non lo so. So solo che quel gol di Bini l’ho rivisto in televisione e su youtube, e ogni volta che lo rivedo mi sembra che la dinamica dell’azione – Bini che chiude due triangoli, si infila in area in velocità e batte il portiere con un sinistro secco – abbia qualcosa a che fare con la mia infanzia e con la voce perduta di mio nonno. Di sicuro, con il senso di irreparabilità delle cose che mi piomba addosso quando mi rendo conto che all’andata il Real Madrid aveva vinto 2-0, e quindi in finale ci vanno loro, non si continua a giocare, non si fa la bella, non ci sono trucchi contabili che possano far vincere l’Inter anche se ha vinto. Forse con mio padre che mi dice qualcosa per consolarmi, perché lui è milanista ma vedere suo figlio triste gli fa pena, anche se era poco più di un bambino anche lui quando ha fatto quel figlio – e con me che come altre volte sento quella pena ma non riesco a reagire come dovrei, a prenderla sulle spalle e accettarla, perché prendersi sulle spalle la pena degli altri vuol dire accettare la sconfitta.

Ma è evidente che anche queste potrebbero essere ricostruzioni a posteriori, come la faccia e la voce di mio nonno. Forse in effetti la partita non l’ho vista, forse non ero dai miei nonni paterni, forse è in un altro momento che imparo l’irreparabilità della sconfitta, e ora attribuisco tutto questo a una partita di cui ho visto solo il gol, intorno al 2012, su youtube. Forse sono un replicante con una serie di ricordi fasulli innestati nel cervello da qualcuno che in questo preciso momento lavora in un grigio cubicolo della Silicon Valley (fuso orario permettendo). E se è così, scrivere di questa roba non ha senso. Non ha senso parlare di una squadra che non ho mai visto sulla base di ricordi che non riesco ad afferrare. Tanto varrebbe inventarsi un’altra storia, un’altra squadra, un personaggio da romanzo con la sua bella memoria fotografica e la sua infanzia luccicante, la campagna, la barba bianca del nonno, il sapore del formaggio fatto in casa, e poi il trauma della città, la solitudine, il senso di comunità ritrovato allo stadio.

Insomma, Heidi nella curva dell’Eintracht Francoforte. A pensarci bene non è una brutta idea. Bisogna che butti giù qualcosa. Prima, però, devo finire di raccontare per bene un po’ di cose che ricordo malissimo.