domenica 11 marzo 2012

3. La notte in cui tutte le vacche sono neroazzurre

14 settembre 1968: Arsenal-Stoke City 1-0 / 22 aprile 1981: Inter-Real Madrid 1-0
La notte in cui tutte le vacche sono neroazzurre

Dopo poche pagine di Fever Pitch, Nick Hornby racconta la sua iniziazione all’Arsenal. È il 1968, e i suoi genitori si sono appena separati. Il padre non vive nella stessa cittadina di provincia dove stanno la madre e i bambini, per cui quando va a trovarli è costretto a inventarsi posti in cui andare. Comincia una teoria di zoo e ristoranti di alberghi (bisogna leggere i racconti di William Trevor per immaginarsi la tristezza di quei ristoranti, o guardarsi almeno una puntata di Fawlty Towers, la serie TV di e con John Cleese: sono sicuro che esistono forme di cucina capaci di esaltare l’intimo grigiore degli alimenti), finché il signor Hornby non ha l’idea di portare il figlio maschio allo stadio. Al termine di una partita grigia quanto la cucina alberghiera inglese, l’Arsenal batte lo Stoke City 1-0, con un gol segnato su rigore, più precisamente sulla respinta del portiere. Di lì in poi, quel ragazzino un po’ apatico trova la sua ossessione dominante. Qualche anno dopo, Hornby si farà tutto il tragitto da Londra a Plymouth per vedere la partita di ritorno di un turno di coppa già deciso a favore dell’Arsenal all’andata.

Ora, io ho almeno due buoni motivi per invidiare Hornby, a parte il fatto che dai suoi libri hanno tratto dei film. Il primo, il più superficiale, è che avendo creato un genere (che poi non ha quasi più frequentato), questo tizio dalla testa tonda e dall’aria paciosa è il Platone della narrativa tifosa borghese: qualsiasi cosa ti venga in mente di scrivere, l’ha già scritta lui. Nei primi due capitoli di Fever Pitch c’è tutto quanto: la casualità futile della scelta, la memoria appaltata e confusa, l’ossessione dei numeri. Hornby ci dice che passa intere giornate a pensare all’Arsenal, e che deve far finta di no per non fare la figura del sociopatico (perché lui sa bene di essere sociopatico). Ci fa capire che l’Arsenal poteva essere il Tottenham, il Chelsea, il QPR, qualunque altra squadra di Londra: e forse sarebbe cambiato tutto, visto che le vittorie e le sconfitte dell’Arsenal scandiscono il ritmo della sua vita. Ammette che probabilmente quel gol contro lo Stoke non l’ha neanche visto, coperto com’era da migliaia di schiene e confuso dal frastuono – il gol che ha in mente, con ogni probabilità, è un’immagine televisiva, o una ricostruzione a posteriori fatta per sentito dire, o sulla base di una cronaca di giornale.

Dopo aver scritto i primi due capitoli sono andato a riguardarmelo, Fever Pitch, perchè sapevo che il mio modello era quello, e avevo già detto a tutti che rifacevo Hornby in modo più narrativo, autobiografico – e invece no, maledetta la sua testa tonda, l’ha già fatto lui e l’ha fatto meglio. Fever Pitch, quando non diventa un saggio sul calcio inglese, è il racconto di una vita e di un personaggio attraverso le partite dell’Arsenal. E la cosa che mi fa più rabbia è che non me lo ricordavo: pensavo di dirle io, quelle cose sulla memoria, sulla casualità e sui numeri. Magari non sono neanche vere: le ho solo lette lì, e credo di averle vissute.

Il mio secondo motivo di invidia, però, è più profondo e viscerale. Perché è vero che Hornby rimugina risultati e classifiche mentre si fa riprendere per le foto di copertina, è vero che anche lui sa quanto tutto questo sia futile e arbitrario: ma per la miseria, pensate al suo inizio e confrontatelo col mio. Lui va allo stadio, a Highbury – a Highbury, non allo stadio Morgagni di Forlì – a vedere l’Arsenal, una squadra che esibiva un gioco dalla bruttezza epica e orgogliosa. Ci va con suo padre, e Highbury diventa per anni l’unico posto dove possono stare senza sentirsi in prestito, la loro casa come padre e figlio. Non ricorda il gol, ma ricorda quella massa di schiene operaie e piccolo-borghesi con la loro rabbia e la loro frustrazione maschili, in quel mondo fatto solo di uomini e per uomini (la sorella, per esempio, è impensabile che vada allo stadio). Va alle medie e il calcio diventa subito un mezzo di socializzazione, e non – come nel mio caso – motivo di odio, feroce presa in giro e desiderio di rivalsa. A meno che non ci nasconda qualcosa, certo. E per carità – tutti nascondono qualcosa.

Ma io, anche nascondendo qualcosa – ed è chiaro che qualcosa lo nascondo, altrimenti non starei neanche a scrivere – che cosa ho avuto di tutto questo? Allo stadio a vedere l’Inter non ci sono mai andato. Ripeto: allo stadio a vedere l’Inter non ci sono mai andato. Neanche in amichevole (ho visto una volta il Milan a Bologna, in amichevole). Mi vergogno a dirlo, come quando gli studenti mi chiedono quanti anni sono stato in Inghilterra (la risposta è: mai più di un paio di settimane): so di essere un impostore. Ho amici forlivesi, per esempio, che vanno a San Siro tutte le volte che possono (oddio, si chiamerà ancora San Siro? Si può dire? È così che dicono quelli veri? Il “Meazza”? Con le virgolette?), che sono stati a Roma il cinque maggio 2005 (con la possibilità magari di portarsi a casa un pezzetto di Gresko come souvenir) e a Madrid poco meno di due anni fa (d’accordo, non mi ricordo la data esatta: un volgare impostore, ecco cosa sono. Divino Josè, perdonami, tu ti saresti studiato tutto prima di avvicinare le dita alla tastiera). Io niente, il 5 maggio 2005 ero davanti al televisore a casa di un amico e poco meno di due anni fa guardavo la TV in un albergo di Roma. Non ho nemmeno l’abbonamento a Sky o a quel che ci vuole per vedere le partite. Anzi, vedere le partite non mi piace neanche – soprattutto quelle dell’Inter. È quasi solo sofferenza senza costrutto. E giocare a calcio mi piace parecchio, ma guardarlo meno. Preferisco seguire il risultato sul televideo. Novanta minuti sono tantissimi. Secondo me le partite dovrebbero durare una ventina di minuti per tempo, con cinque minuti di intervallo. Oppure le si dovrebbe giocare direttamente sul televideo, con qualche generatore casuale di formazioni e risultati. Tanto a me non cambierebbe niente, e neanche a Ranieri.

Ma siccome intorno al 1981 il televideo non esisteva ancora, torno a chiedermi: com’è iniziata? Qual è la prima partita che ho visto? Dov’ero e con chi? Hornby magari non avrà visto il gol, ma sul dove e sul con chi non ci sono dubbi.

C’è di nuovo qualche forse, e ci sono molti ma. Forse la prima partita che ho visto è un’Inter-Real Madrid del 22 aprile 1981, semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni. Forse ero dai miei nonni paterni, di nuovo – come mai sono sempre dai miei nonni paterni, in questi primi ricordi calcistici? Forse c’erano i miei genitori, e di sicuro, se ero lì, c’erano i miei nonni. Forse mia nonna era in cucina, come sempre (come sempre nei miei ricordi. Avrà fatto altro, oltre a stare in cucina, ma io me la ricordo così: in cucina finché mio nonno era vivo, accigliata su una sedia, nel salotto di un’altra casa, dopo la morte di mio nonno. E fra l’altro mi vien da dire che non è giusto, questo ricordare le vite dei vecchi al contrario, partendo dalla morte e poi dalla vecchiaia, come se non fossero persone anche loro, ma solo vecchi). Forse mio nonno era lì vicino a me, e forse sorrideva (nelle foto sorride sempre, timidamente bonario. Ma porco cane, si sarà anche arrabbiato ogni tanto, no?). Forse anche mio padre era vicino a me.

Ma non sono sicuro che fosse casa dei miei nonni paterni. Ma non sono sicuro che la partita non fosse già finita, o non l’avessero giocata il giorno prima, e in questo caso ciò che mi ricordo è un qualche servizio di telegiornale con le riprese dell’unico gol di Bini. Ma se ero lì con i miei genitori, dov’era mia mamma, che nel ricordo non so collocare da nessuna parte? E mio fratello che aveva già quasi quattro anni e quindi parlava, e fra l’altro parlava moltissimo? E se c’era mio nonno: perché non mi ricordo che mi abbia detto neanche una parola? E già che ci siamo: perché nella mia testa non c’è il ricordo uditivo di una singola parola detta a me o ad altri, in quella o qualunque altra occasione, dal mio nonno paterno, che è morto nel 1983 proprio quando io ero al mare? Per esempio, sono sicuro che mio nonno mi ha detto, e poteva essere il 1980 o il 1981, che teneva per il Bologna (era dell’11): ma perché non mi ricordo la sua faccia mentre lo dice e la sua voce che lo dice?

Non lo so. So solo che quel gol di Bini l’ho rivisto in televisione e su youtube, e ogni volta che lo rivedo mi sembra che la dinamica dell’azione – Bini che chiude due triangoli, si infila in area in velocità e batte il portiere con un sinistro secco – abbia qualcosa a che fare con la mia infanzia e con la voce perduta di mio nonno. Di sicuro, con il senso di irreparabilità delle cose che mi piomba addosso quando mi rendo conto che all’andata il Real Madrid aveva vinto 2-0, e quindi in finale ci vanno loro, non si continua a giocare, non si fa la bella, non ci sono trucchi contabili che possano far vincere l’Inter anche se ha vinto. Forse con mio padre che mi dice qualcosa per consolarmi, perché lui è milanista ma vedere suo figlio triste gli fa pena, anche se era poco più di un bambino anche lui quando ha fatto quel figlio – e con me che come altre volte sento quella pena ma non riesco a reagire come dovrei, a prenderla sulle spalle e accettarla, perché prendersi sulle spalle la pena degli altri vuol dire accettare la sconfitta.

Ma è evidente che anche queste potrebbero essere ricostruzioni a posteriori, come la faccia e la voce di mio nonno. Forse in effetti la partita non l’ho vista, forse non ero dai miei nonni paterni, forse è in un altro momento che imparo l’irreparabilità della sconfitta, e ora attribuisco tutto questo a una partita di cui ho visto solo il gol, intorno al 2012, su youtube. Forse sono un replicante con una serie di ricordi fasulli innestati nel cervello da qualcuno che in questo preciso momento lavora in un grigio cubicolo della Silicon Valley (fuso orario permettendo). E se è così, scrivere di questa roba non ha senso. Non ha senso parlare di una squadra che non ho mai visto sulla base di ricordi che non riesco ad afferrare. Tanto varrebbe inventarsi un’altra storia, un’altra squadra, un personaggio da romanzo con la sua bella memoria fotografica e la sua infanzia luccicante, la campagna, la barba bianca del nonno, il sapore del formaggio fatto in casa, e poi il trauma della città, la solitudine, il senso di comunità ritrovato allo stadio.

Insomma, Heidi nella curva dell’Eintracht Francoforte. A pensarci bene non è una brutta idea. Bisogna che butti giù qualcosa. Prima, però, devo finire di raccontare per bene un po’ di cose che ricordo malissimo.

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