15. Il rospo del lavoro e l’urlo della tribù
14 settembre 2013: Inter-Juventus 1-1
In
una poesia scritta all’età di trentadue anni da Philip Larkin –
poeta inglese fintamente semplice a cui torno sempre più spesso –
il lavoro viene paragonato a un rospo che ti sta addosso e ti
schiaccia. Perché, si chiede la persona
poetica di “Toads”, dovrei permettere a quella brutta bestia di
starsene seduto sulla mia vita?
Why
should I let the toad work
Squat on my life?
Il bello delle poesie è che ci si mette poco a rileggerle, e a
rileggerle si spostano sempre, di qualche centimetro o di parecchi
chilometri. Si spostano perché quella parola, quella frase, quel
verso, li avevamo letti in un modo e non avevamo pensato a
quell’altro. Si spostano perché la seconda o la terza volta
notiamo una rima che lì per lì ci era sfuggita, e che tiene insieme
due cose che nella vita e nella prosa normali insieme non stanno. Si
spostano, soprattutto, perché quando le rileggiamo siamo cambiati
noi: siamo passati dalla mattina alla sera, dal sole alla pioggia,
dalla solitudine del nostro letto di ragazzi a una famiglia con
figli, dall’eterna giovinezza alla coscienza della morte, dai
ventotto ai sessantaquattro anni.
Io, quando ho letto per la prima volta “Toads”, avevo intorno ai
ventotto anni, e nessuna intenzione di farmi schiacciare dal rospo
del lavoro. La temevo molto, quella gran brutta bestia, nelle stesse
forme descritte da Larkin – la routine dalle nove alle cinque,
timbrare il cartellino sei giorni su sette – ma finché non me lo
fossi ritrovato sul collo, avevo intenzione di correre. Volevo
entrare a lavorare all’università, che era la mia idea di posto in
cui potevi fare cose che ti piacevano con i tempi che ti garbavano.
Cinque anni dopo, grazie a una combinazione di un po’ di abilità e
molta, molta fortuna, sarei riuscito a entrarci. Dunque, non c’era
più nessun rischio che quella brutta bestia mi trasformasse in un
pallido automa degli schedari e delle partite doppie.
Mi sono ritrovato a pensare a “Toads” la scorsa settimana,
venerdì 13 settembre, mentre andavo a un convegno dell’associazione
nazionale della mia materia. Il convegno si teneva in una città
medio-grande del centro-nord, e io, dopo aver preso un qualche treno
frecciamarrone la mattina presto, camminavo contento fra grandi
palazzi bagnati di sole. Ero consapevole e stupito della mia
contentezza, perché mi rendevo conto che era dovuta – ancora più
che al sole e alla pietra imbiondita dei palazzi antichi – al fatto
che stavo andando a un convegno dell’associazione nazionale della
mia materia. Un attimo dopo mi è venuto in mente Larkin, e qualche
minuto più tardi mi è venuto un brivido.
Nel mio, nel nostro lavoro da aironi – volendo, possiamo
permetterci di studiare ancora a sessantaquattro anni – ci sono un
po’ di incombenze che a me hanno sempre fatto l’effetto dei
rospi. Ci sono le riunioni, le commissioni e le cariche, e in
generale tutte le cose che hanno a che fare con l’amministrazione e
la politica accademica: certi tipi di persone prosperano in questo
genere di stagni, ma a me sembra di affogare, e ci sguazzo solo nella
misura in cui non se ne può proprio fare a meno. Poi ci sono i
convegni, e soprattutto quelli in cui non si discute di un argomento
specifico – i grandi scatoloni in cui devono stare tutti, perché
ci si possa ritrovare, misurare, adulare, ridimensionare, arruolare e
combattere l’un l’altro: stagni in cui ho sguazzato spesso, come
tutti i miei colleghi, imparando a girare alla larga dagli anfibi più
grossi e cattivi.
Ora,
il convegno verso cui ero diretto era proprio il genere di occasione
in cui ambiti e argomenti spaziano dall’invenzione della stampa al
fumetto nell’era digitale. Era anche il genere di occasione in cui
si ritrova l’universo mondo, e io – mi rendevo conto con
sconcerto – ero contento di vedere tutti i miei colleghi. Tutti.
Ero contento di vedere l’amica fraterna che sta andando in pensione
– e questo era abbastanza normale. Ero contento di vedere tutte
quelle persone con cui ogni tanto ci può essere competizione, ma che
ti vanno comunque a genio – e fin qui, niente di strano. Ma ero
anche contento di vedere quelli che normalmente mi mettono in
soggezione o in imbarazzo – e questa era già una piccola novità.
Novità ancor più grande, ero contento di vedere anche i grossi
anfibi cannibali e i bitorzoluti insetti palustri (spesso i secondi
diventano simbionti dei primi) che guadano le acque dei convegni
nazionali con sorrisi mostruosi. Ero zeppo di inspiegabile
benevolenza universale.
La portata di questa benevolenza è poi molto diminuita, nel corso
della giornata e nello stillicidio delle strette di mano. Ma per me
il problema rimaneva, e ci rimuginavo su nel regionale lento del
ritorno: cosa mi stava succedendo? Mi stavo rincoglionendo? O gli
orizzonti della mia vita si erano tanto ristretti che ormai anche una
gita di lavoro di centoventi chilometri mi sembrava un’eccitante
spedizione artica?
Allora ho cominciato a pensare a tutte le cose che – nel mio
inventario ormai da aggiornare – mi distraggono dall’incombere
del lavoro. La musica, in primo luogo. A sedici anni, con le dita
ancora doloranti per la recente fatica di spingerci dentro dei fili
di ferro, ricordo di aver pensato: questa cosa è bellissima. Posso
suonare tutte le canzoni del mondo, e finché avrò una chitarra in
casa non sarò mai solo. Ora però ho ricominciato a suonare un po’
più sul serio, a fare dei dischi, e la musica è diventata anche: 1)
scartare tutte le canzoni che mi verrebbe in mente di scrivere ma non
vanno bene per me o per chi le ascolta; 2) esercitarmi per non
sbagliare le parti che devo fare dal vivo. E poi, sempre più in
basso nella scala del divertimento: 3) chiamare o scrivere a questo o
quello per ottenere contratti, concerti, recensioni. E in generale:
4) pensare alla prossima mossa per la conquista del mondo.
Andando
avanti nel mio inventario, la seconda cosa sono i libri, i dischi, e
tutte le forme di artefatto che contengono parole. Anche qui, tanti
bei ricordi: a quindici anni ho pensato che avrei letto per tutta la
vita libri come Il
signore degli anelli,
e a trenta ho scoperto una trilogia di romanzi scozzesi, A
Scots Quair
di Lewis Grassic Gibbon, che fino alle ultime dieci pagine mi hanno
riempito di gioia di vivere al solo pensiero che ce n’era ancora un
po’. Ma di nuovo, la mia deformazione professionale – pensate al
valore letterale della metafora, come se una forza gravitazionale mi
piegasse sui libri – ha tolto un po’ di lustro alle copertine
patinate. Se leggo un romanzo, un angolo del mio cervello pensa
all’analisi linguistica che se ne potrebbe fare. Se trovo un bel
romanzo a fumetti nuovo, se risento una vecchia canzone di Kate Bush,
mi viene in mente un utensile analitico che si chiama stilistica
multimodale, e che mi permetterebbe di fare a minuscoli pezzettini
ogni parola, nota e disegno. Perché non ci fai su un libro, mi
sussurra il demone che vive in quell’angolo di cervello. Non l’ha
ancora fatto nessuno – magari è la volta che te lo pubblica la
Oxford University Press.
E allora cosa rimane di assolutamente scervellato, decerebrato, privo
di ambizione? Forse lo sport – soprattutto il calcio giocato e
guardato. Ma quanto al primo, riesco a giocare raramente – ho
troppo da lavorare, da suonare, da studiare e da scrivere. Mentre il
calcio guardato – che fra i venti e i trent’anni avevo lasciato
perdere quasi del tutto, occupato com’ero a cercare femmine (notate
bene: cercare) e a ingrassarmi di nozioni – è effettivamente
tornato centrale nella mia vita. O per meglio dire, è tornato
marginale ma pervasivo, come una lieve irritazione cutanea alla
pianta di un piede. E ancora una volta, la similitudine non è
gratuita: come vi sarà balenato alla mente se state leggendo questa
rubrica, sono interista. Per me il calcio guardato (o seguito sul
televideo, nel mio caso) è soprattutto sofferenza.
E
qui c’entra la giornata di sabato scorso, il 14 settembre del 2013.
Io e la Paola, guardandoci in faccia, ci eravamo resi conto che era
l’ultimo fine settimana prima del diluvio. Da lì in poi, una
fiumana di lezioni, musica, scrittura varia e figli ci avrebbe
investiti entrambi, sbattendoci via in direzioni diverse. Allora ci
siamo detti: via da tutto, troviamo una destinazione per i figli e
un’altra per noi. E io ho pensato: al diavolo Inter-Juve, questo
sabato andiamo a fare un giro a Bologna. Abbiamo passato il
pomeriggio nelle vie del centro, la prima serata in un posto dove ci
piace mangiare e la seconda serata in un cinema dove, abitando in
provincia, non possiamo mai andare. Nel cinema, toccando un ginocchio
alla Paola, ho avuto quella sensazione di lusso che nessun ristorante
di lusso mi ha mai dato – anche perché in questo caso non c’era
il pensiero del conto a sussurrarmi all’orecchio pensieri di morte.
Il film che abbiamo visto, per una volta senza gli impostatissimi
doppiatori italiani, era splendido: Mood
Indigo
di Michel Gondry. Ogni sequenza era una sorpresa, nessuna immagine
era plausibile in termini di vita reale, e tutto il film ti diceva
cose sulla vita reale che si possono dire, in quel modo, solo al
cinema. Io guardavo, ogni tanto toccavo un ginocchio destro e cercavo
di allontanare i pensieri sinistri. Cercavo di allontanare tutti i
pensieri, a dire il vero, anche se qualcosa di molto piccolo
rimaneva, nel solito angolo di cervello.
Un paio d’ore prima, passando a piedi da via del Piombo, io e la
Paola avevamo sentito un urlo stranissimo. Era un grido inarticolato,
di gioia ma non di contentezza, di soddisfazione partorita da
un’estenuata sofferenza. Era una voce femminile, ma talmente
stravolta da farsi quasi asessuata. Io avevo sentito l’urlo, e il
mio orologio calcistico interno aveva subito registrato il momento:
erano le sette e venti, cioè il settantesimo minuto di Inter-Juve.
Avevo deciso di non seguire e non sapere, ma una parte di me sapeva e
seguiva. Quella parte di me aveva riconosciuto l’urlo della tribù:
la voce stravolta era una voce interista, e il grido di gioia
sofferente annunciava un (nostro) gol. Dunque eravamo passati in
vantaggio, verso la metà del secondo tempo. Da bravo interista, mi
sono impedito perfino di provare una moderata soddisfazione: da lì
al novantesimo, quegli altri lì potevano facilmente pareggiare e
vincere – e in effetti hanno pareggiato quasi subito e rischiato di
vincere alla fine, ma io questo l’ho scoperto dopo.
Al cinema, l’eco di quel grido risuonava ancora, per quanto
flebile. Il demone che mi abita nel cervello cercava di suggerirmi
possibilità di studio multimodale sul cinema, e il suo fratello
gemello mi diceva: pensa che meraviglia, se ti chiedessero di fare la
colonna sonora di un film così – devi trovare un regista geniale
in ascesa e offrirgli i tuoi servigi. Io, sorridendo, con il tatto,
l’udito e la vista occupati, facevo finta di non sentire. Non ora,
dicevo. Domani faccio tutto quello che volete – scrivo dieci studi
multimodali, contatto un milione di registi – ma stasera, niente.
Otto
anni dopo “Toads”, Larkin, quarantenne, torna sull’argomento
con “Toads Revisited”. Dopo aver passato in rassegna le
alternative alla sua vita anfibia e ripetitiva, e avendole trovate
molto poco attraenti e ancor più noiose, la persona
del
poeta si rivolge direttamente al rospo. Ma sì – gli dice nel
distico rimato finale – buon vecchio rospo. Dammi il braccio,
sorreggimi sulla via del cimitero.
Give me your arm, old Toad;
Help me down Cemetery Road.
Nessun commento:
Posta un commento